Werner Herzog, un’introduzione
Ai grandi artisti non piace la parola ‘intellettuale’, anche se spesso sembra l’unico appellativo possibile. Werner Herzog, però, è un regista eclettico, dinamico, originale. Non sarà quindi un problema sostituire ‘intellettuale’ con aggettivi più consoni, come ‘avventuriero’ o ‘conquistatore’. E di conquista parla il suo libro più famoso: ‘La conquista dell’inutile’, un diario dove Herzog appuntò le fasi della realizzazione del suo film più amato e conosciuto: ‘Fitzcarraldo’. Prima di questo, una carriera già avviata tra rivoluzioni ed esperimenti, ricerca, sodalizi artistici e amicizie destinate a cambiargli la vita, e a contribuire come fondamenta di una poetica che non ha conosciuto precedenti e non vede ancora eredi all’orizzonte.
È quindi lecito chiedersi in cosa consista la materia rivoluzionaria di Herzog, perché il suo cinema abbia preso quella forma e perché sembra impossibile ogni tentativo di imitazione. Andremo per ordine, suddividendo questa breve, minima monografia per quattro episodi, partendo dai cenni biografici, che potrete saltare con la divisione in capitoli – sappiamo quanto siano noiose le digressioni biografiche, ma sappiamo anche quanto siano necessarie.
Sebbene i cenni sulla vita di Herzog contengano fatti atipici per la formazione di un regista, per agevolare la lettura e permettere di leggere esclusivamente le parti che risultano di maggior interesse, chi scrive ha rinunciato a nominare i capitoli con titoli altisonanti – questo gli impedirà la fama. Dunque, alla vita di Herzog sarà dedicato un capitolo che si intitola, per lo stupore di molti, ‘Vita di Herzog’.
Vita di Herzog
Werner Herzog Stipetić nasce a Monaco di Baviera il 5 settembre 1942, nel paesino di montagna di Sachrang dove la famiglia si era rifugiata per sfuggire ai bombardamenti. Il padre abbandona la famiglia poco dopo la sua nascita, al tramonto della seconda guerra mondiale. La condizione di isolamento impedì al giovane Herzog di avere un’infanzia comune per la sua epoca: sembra che abbia visto il suo primo film all’età di 11 anni, anche se in altre occasioni ha dichiarato di averne avuto 13, ma non è importante. Il film era un documentario sugli eschimesi, a cui fece seguito un’illustrazione orale di storia del cinema contenuta in un’enciclopedia. Sono i due fattori che scateneranno la curiosità di Herzog per il cinema.
All’età di 13 anni si trasferisce a Monaco con la madre e due fratelli. Vivranno a lungo in una squallida pensione nella periferia della città, condividendola con l’eccentrico Klaus Kinski, che avrà un ruolo centrale nella vita di Herzog e nella sua carriera di regista. Se dunque un documentario era stato il fattore scatenante della sua curiosità, sarà grazie a Kinski e alle sue imprevedibili follie narcisistiche che in Herzog nascerà l’amore per il cinema, e per quel personaggio straordinario.
Nello stesso periodo si rifiuta di cantare durante la recita scolastica, lasciando il palco e venendo per questo espulso dalla scuola: Herzog non ascolterà più musica per molti anni, e si rifiuterà di imparare a suonare – scelta di cui si pentirà anni dopo. Scrive la prima sceneggiatura a 16 anni. Ruba una cinepresa da 35mm dalla Scuola di Cinema di Monaco. A 15 anni esce di casa e arriva a piedi in Albania – ne parleremo meglio nell’ultima parte della monografia –, pochi anni dopo ripeterà l’avventura, da Monaco a Parigi, per raggiungere a piedi un’amica gravemente malata. Ne verrà fuori il suo primo libro, un diario dal titolo “Sentieri nel ghiaccio”.
Il suo primo cortometraggio, ‘Ercole’, è un adattamento in chiave ironica e moderna delle 12 fatiche dell’omonimo eroe: viene filmato il culturista Reinhard Lichtenberg, già ‘Mister Germania’ nel ’62, intento ad allenarsi, sfoggiando la sua possanza fisica. Di tanto in tanto, le immagini del culturista vengono oscurate per fare spazio a quesiti connessi alle fatiche: “Ripulirà le stalle di Augia?”, e viene mostrata una discarica. Il tutto dura appena nove minuti. Per finanziare questo corto, sul quale Herzog avrà da dire anni dopo che ‘Era un lavoro giovanile che rivisto oggi non mi piace, lo trovo stupido e piuttosto inconcludente, non lo rifarei’, il giovane bavarese lavorò come saldatore e come custode di un parcheggio.
L’anno seguente fonda la Werner Herzog Film Produktion, la sua personale casa di produzione – una stanzetta con un tavolo e due sedie – che gestisce inizialmente da solo e successivamente assieme al fratello. Dopo ‘Gioco nella sabbia’, un anonimo cortometraggio che tornerà come breve sequenza del film ‘Segni di vita’, gira ‘La difesa esemplare della fortezza di Deutschkreuz’ (1967): quattro ragazzi entrano in una fortezza dove trovano degli abiti da soldati, li indossano e giocano alla guerra.
Questo è il primo lavoro di Herzog che funge da introduzione alla sua poetica, a una delle innumerevoli tematiche toccate nel corso degli oltre 50 film prodotti in circa cinquant’anni di attività. I bambini che giocano a fare la guerra sono un richiamo epifanico dell’infanzia ma anche il sintomo della necessità umana di un conflitto, di una contrapposizione, di un obiettivo opposto da combattere e conquistare. Un embrionale caos di pulsioni irrazionali che sfocerà al culmine della carriera di Herzog, quando durante la lavorazione di Fitzcarraldo arriverà alla conclusione che non esiste armonia nella natura e tra gli esseri viventi – un concetto contro il quale oggi si tende ingenuamente a remare contro.
La vita prosegue con la celebrazione del primo dei tre matrimoni, con l’omeopata Martje Grohmann, dalla quale avrà il figlio Rudolph – anche lui sceneggiatore. Nel 1967 esce ‘Ultime parole’, un corto documentaristico, forse la produzione più interessante di Herzog prima dell’approdo al lungometraggio. Ambientato in un villaggio greco, vediamo un poliziotto, un dottore e un marinaio raccontare davanti alla macchina da presa la storia di un vecchio che, portato via da Spinalonga, la sua isola natale, smette di parlare. Nel corso dei 13 minuti, però, scopriamo che il vecchio non ha rinunciato definitivamente al linguaggio, ripetendo un’unica frase, sempre identica, ogni volta che qualcuno prova ad interagire con lui: “No, non dirò altro, non voglio più parlare”. Gli stessi narratori sembrano essere ipnotizzati – come accadrà per davvero in ‘Cuore di vetro’ –, ma tutto in questo strano documentario di Herzog ha un posto preciso e mai casuale nella narrazione, ed orbita attorno a ciò che Herzog ha definito la ‘catastrofe del linguaggio‘: “In un certo senso era una sfida contro le forze della società, contro le regole del linguaggio, contro il mondo di per sé. Ha qualcosa in comune con altri miei personaggi, e per certi aspetti, questo film finisce con La difesa esemplare della fortezza Deutschkreuz e rappresenta un primo passo verso Segni di vita, è una sorta di preparazione.”
Segni di vita
Nel 1968 esce ‘Segni di vita’, l’esordio al lungometraggio di Werner Herzog, per la durata di un’ora e venti minuti. La premessa è semplice: Stroszek, paracadutista durante la seconda guerra mondiale, viene mandato a sorvegliare un minuscolo paesino nell’Isola di Kos, in Grecia, adibita a deposito per le munizioni, dopo essere rimasto ferito. Si trasferisce all’interno di un forte con la moglie Nora e due soldati tedeschi. Preso da un’inspiegabile angoscia, che cresce lentamente fino alla visione di un’intera landa ricoperta da mulini a vento, Stroszek dimostra segni di squilibrio sempre più marcati, che culminano quando decide di barricarsi nella fortezza sparando sulla moglie e i due soldati, e poi minacciando di far esplodere il forte, mentre l’isola viene parzialmente evacuata.
‘Segni di vita’ sancisce l’inizio della collaborazione tra Herzog e il direttore della fotografia Thomas Mauch, che nel film ha un ruolo fondamentale. All’interno della pellicola, infatti, i dialoghi sono ridotti all’osso. Una voce fuoricampo esplicita le parti fondamentali e illustra i comportamenti dei personaggi, senza mai interferire con la loro componente psicologica, dalla quale Herzog cerca di mantenere una distanza di sicurezza. Parla quindi l’immagine, la luce abbagliante che impedisce di concentrarsi sui punti focali dell’azione.
Quali sono i segni di vita del film? Secondo Moravia, il significato sarebbe da ricercare nella scelta di rappresentare il film su un’isola semi-deserta, giustificando la premessa narrativa con il conflitto mondiale ma spostando l’attenzione su un luogo ‘altro’, sospeso nel tempo e nello spazio, identificando la violenza umana anche al di fuori di un contesto bellico, come una costante con la quale lo stesso Moravia riconosceva tutte le forme di società come ‘naziste’. Più banalmente, possiamo supporre che la vicenda tragga la sua ispirazione da un avvenimento storico riportato da una rivista tedesca – di cui Herzog era abituale lettore – e avvenuto durante la Guerra dei Sette Anni, riportato anche ne ‘Il folle invalido del Forte Ratonneau’, racconto appartenente al romanticismo tedesco, scritto da Achin von Arnim – che figura come ideatore del soggetto del film.
I segni di vita sono allora semplicemente ciò che rimane di una narrazione che rifiuta il contatto ravvicinato con la follia umana, che da questa si allontana, fugge, lasciando la minima percezione dei segni e non l’esplicita manifestazione dell’atto, come accade invece nel cinema di Lars Von Trier. Nel lungo climax ascendente che conduce il film all’esplosivo finale – potrebbe essere uno spoiler, oltre che una pessima battuta –, Stroszek diventa il primo autentico titano filmato da Herzog. Come accadrà ancora nella sua filmografia, anche Stroszek si presenta come un ‘folle’ che sfida la società, che galoppa fieramente contro qualcosa di più grande e finisce per rimanere deluso, schiacciato. Ecco come la voce narrante chiude la narrazione: “Nella sua ribellione aveva iniziato qualcosa di titanico, visto che l’avversario era molto più forte di lui. Così aveva miseramente fallito come tutti i suoi simili”.
Anche i nani hanno cominciato da piccoli
Esce nel 1970, in poche sale affittate dallo stesso Herzog, quest’opera particolarissima, che racconta la rivolta di una colonia di nani in una regione dimenticata da Dio e non meglio specificata. Senza mai cedere alla spettacolarizzazione dell’azione, Herzog mantiene anche qui una distanza emotiva rispetto agli eventi narrati, congelando il tempo e lo spazio della narrazione per raccontare la parabola universale della solitudine degli uomini.
Protagonista di ‘Anche i nani hanno cominciato da piccoli’ è appunto un gruppo di nani che abita un mondo costruito per altezze superiori alla loro, e la scelta di riprende tutto da una prospettiva superiore rispetto a quella dei protagonisti è solo una delle originali trovate che Herzog adotta perché il messaggio dell’opera passi per l’immagine, senza cadere nella verbosità di cui spesso il cinema è vittima. “Ne abbiamo abbastanza della lotta eterna contro la bestia che si annida in noi”, e difficilmente troveremo al cinema un Herzog così crudo e anti-romantico.
E non è certamente una visione facile, ma è ammirevole notare come l’appena 27enne Herzog, dopo un esordio importante e antologico come ‘Segni di vita’, riesca già ad unire così raccontare il peggior istinto belluino, con la felice spirale di violenza in cui i nani precipitano nel corso della pellicola. Un’umanità piccola ma capace di grandi bestialità, e destinata anch’essa al fallimento: il film è infatti un flashback, raccontato agli agenti della polizia da uno dei nani, di nome Hombre. Bianco e nero, una trama esile se non assente, personaggi con menomazioni fisiche, una spirale di immotivata violenza e un fallimentare destino dietro l’angolo: se volete un’introduzione completa al cinema di Herzog, l’avete trovata.
Paese del silenzio e dell’oscurità
Ad anticipare il ‘Paese del silenzio e dell’oscurità’, c’è il documentario ‘Futuro impedito’. Entrambi affrontano il tema della condizione umana afflitta da gravi handicap, di come la prospettiva di vita cambi di conseguenza, della capacità di adattamento e dell’universo nascosto, rimodulato delle persone che vivono con ostacoli quotidiani.
Nel ‘Paese del silenzio e dell’oscurità’, però, c’è qualcosa di più: Herzog sperimenta per la prima volta un contatto diretto, più genuino e sradicato dalla finzione cinematografica, con la malattia e l’infermità, e la solitudine che ne deriva. Seguendo la vita di Fini Straubinger, una donna sorda e cieca che vive assieme ad altre persone con il suo stesso handicap, Herzog esce dai binari del suo cinema e si interroga in maniera più esplicita e glaciale su cosa ci rende umani, sulle emozioni e il nostro modo di entrare in contatto con esse: “Quando le nostre mani si lasciano è come se fossimo lontani mille miglia”. Per la Straubinger firma anche la battuta finale, divenuta forse la più celebre dell’intero film – se di celebrità possiamo parlare: “Se scoppiasse una nuova guerra mondiale, nemmeno me ne renderei conto”.
Vale la pena dire che nel frattempo la Neuer Deutscher Film, movimento registico nato circa dieci anni prima, riesce a firmare i suoi primi grandi successi: una rete distributiva indipendente, la Filmverlag der Autoren, da cui nascerà un’intensissima produzione televisiva: Edgar Reitz girerà nel 1971 il film “Geschichten vom Kubelkind“, dove Herzog comparirà nel ruolo di assassino di prostitute, e dove anche Herzog contribuirà con alcune sue opere originali firmare specificamente per la televisione.
Fata Morgana
Nel continente nero, Herzog scrive e gira tre film: dopo ‘I medici volanti dell’Africa orientale’ e il più importante ‘Anche i nani hanno cominciato da piccoli’, arriva ‘Fata Morgana’, che viene girato tra Algeria, Tanzania, Kenya, Canarie, Camerun e Costa D’Avorio, ed è il primo film di Herzog a creare il mito dietro alla sua figura di regista. Se infatti è innegabile una rivoluzione poetica apportata nel cinema lungo i suoi meravigliosi cinquant’anni di carriera – e su cui avremo modo di riflettere nei prossimi episodi di questa monografia –, è impossibile ignorare la mitologia che da sempre aleggia sulla testa di Herzog, avventuriero, regista selvaggio, lavoratore infaticabile, scopritore di mondi, conquistatore: ha rischiato la vita innumerevoli volte sul set, con un unico obiettivo: il film, che era sempre più importante di tutto e di tutti.
Mentre gira ‘Fata Morgana’, la troupe (Herzog e il cameraman Jorg Schmidt-Reitwein) è costretta a fuggire dall’Uganda, per poi venire arrestata in Camerun per un caso di omonimia: il cameraman rispondeva al nome di un mercenario ricercato da quelle parti. Fuori dall’aneddoto che rincorrerà Herzog per tutta la vita – parleremo anche di questo, nella parte successiva della monografia –, c’è il film, che pur non essendo tra i più notevoli del regista bavarese, riesce ad essere interessante nella sua volontà di raccontare ‘Dolor y Gloria’, per dirla alla Almodovar, ossia bellezza e miseria di una terra lontana e perduta, in cui si riversa una bellezza misteriosa – da non confondere con l’armonia: “Qui si narra come un tempo il mondo era sospeso nell’infinito, immerso in un profondo silenzio e vagabondava per gli spazi siderali, solitario e deserto. Non esistevano uomini, animali, c’era soltanto il cielo.”
Nella prima parte, viene mostrato un villaggio in stato d’abbandono, e si realizza quell’illusione ottica dettata dagli strati di calore che avvolgono l’atmosfera e paralizzano l’azione – è un richiamo alla luce abbacinante di ‘Segni di vita’. E i segni di vita arrivano nella seconda macro-sequenza del film: non solo la vegetazione, ma anche i bambini e la fauna selvaggia. Nell’Età dell’Oro, il terzo capitolo, un cantante in occhiali scuri e una pianista ripetono come un leitmotiv una canzone popolare di origini spagnole. Uomini sono indaffarati con gli animali del posto, alcuni di loro sono medici alle prese con bestie locali, mentre altri vagano senza scopi precisi, a volte accecati dall’attrazione verso i turisti, che escono come insetti e provengono tutti da Lanzarote.
La musica che è costante e che fornisce contrasti, associazioni, epifanie di grazia in momenti inaspettati in cui sembra che la pellicola si perda, vada altrove, e poi ancora le voci narranti: quella di Lotte Eisner, la critica cinematografica a cui Herzog dedicherà ‘L’enigma di Kaspar Hauser‘ e il già citato ‘Sentieri nel ghiaccio’, mentre legge alcuni estratti del Popul Vuh, e quella di Herzog ed altri uomini che riflettono sul paesaggio, sulle condizioni di vita, sui giochi ottici di una regione dove non ci sono che terra e sabbia, ma nella quale si può scorgere un’immaginaria distesa d’acqua all’orizzonte: è l’illusione che dà il titolo al film.
Nel 1972, Werner Herzog ha 30 anni. È un regista solidissimo, occasionalmente attore, con una troupe minima ma con la quale firmerà anni di intese vincenti. Viaggia in Africa, girà l’Europa a piedi, è uno scrittore minimale e straordinariamente efficace nel restituire suggestioni quotidiane senza smancerie e ghirigori ornamentali. Quello che gli manca, alle porte del 1972, è una nemesi con cui fare i conti, un duellante, il proprio doppio. Lo troverà in una figura già nota: Klaus Kinski, con cui firmerà cinque pellicole impossibili da dimenticare, e con il quale entrerà definitivamente nella storia del cinema (e dell’aneddotica).