Venticinque anni senza Fabrizio De André: le nostre canzoni preferite
Era l’11 gennaio del 1999 quando alle ore 2 e 30 ci lasciava Fabrizio De André. Sono trascorsi 25 anni da quel giorno ma le sue ballate continuano ad accompagnare le nostre vite. Tra il mito e la realtà ha sfidato i canoni arroganti del suo tempo – ma anche del nostro – con ironia e un linguaggio sferzante e pungente. Ha rivoluzionato il cantautorato italiano fermo da anni ai dogmi della “canzonetta”. Gli emarginati e tutti quelli messi all’angolo dalla società sono stati i protagonisti dei suoi testi, fornendo una chiave di lettura della vita e dell’esistenza che fino ad allora l’Italia non conosceva.
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The Walk of Fame omaggia Fabrizio De André riproponendo 10 di alcuni dei suoi grandi successi, consapevoli che tutte le eccellenze messe in musica dal grande Faber mai potrebbero far parte di un unico elenco.
Il Testamento di Tito (1970)
Pezzo simbolo dell’album “La buona novella”, incentrato sulla figura di Gesù, considerato da Faber il più grande rivoluzionario della storia. Tito, a ben vedere, sarebbe uno dei ladroni crocifisso insieme a Cristo, però quello buono. In questo testo Tito ripercorre e analizza i dieci comandamenti, come se facesse un testamento, e riflette sul senso della legge di Dio. La visione di De André è una visione critica nei confronti di una legge divina in nome della quale si può anche uccidere un uomo senza averne pietà. Tito, sebbene peccatore, è l’unico che “prova dolore nel vedere un uomo che muore” e con quest’ultima strofa c’è il riscatto del peccatore che sembra essere l’unico ad aver “imparato l’amore”.
Bocca di Rosa (1967)
Uno dei brani più conosciuti nel panorama nazionale a tal punto che l’espressione “bocca di rosa” è entrata ormai nell’immaginario collettivo per indicare una persona “poco di buono”, una prostituta, anche se De Andrè, come precisò in un’intervista, non aveva intenzione di considerarla in quel modo, perché lei l’amore non lo faceva per soldi o per professione ma lo faceva con passione. Tante sono le ipotesi che si sono susseguite nel corso degli anni circa l’esistenza o meno di una Bocca di Rosa che lo avesse influenzato. C’è chi ritiene che si sia ispirato alla canzone francese “Brave Margot” di Brassens, chi ritiene che Bocca di Rosa fosse stata una ragazza istriana, come si evince dal suo unico romanzo, e infine chi pensa che fosse stata Liliana Tassio, scomparsa nel 2016, e che aveva sempre riferito di essere lei la donna di cui De André parlò.
Il Pescatore (1968)
Un pescatore si trova ad avere a che fare con un assassino che gli chiede del cibo e da bere. Senza opporre resistenza il pescatore esaudisce la richiesta e spezza il pane per chi ha sete e fame. Nonostante la stranezza dell’incontro, si tratta di un momento evocativo, pieno di calore, dai tratti cristiani, dove l’ha fa da padrone l’altruismo e il buon cuore. Un pescatore che difende un assassino.
La canzone dell’amore perduto (1974)
Si dice che i versi di questa canzone siano autobiografici. Infatti pare siano stati scritti da Fabrizio al culmine del matrimonio con la prima moglie Enrica Rignon, madre di Cristiano. La canzone ha due narratori: nella prima strofa un lui, mentre nella seconda una lei. Nonostante le diverse teorie sul perchè di una scelta tanto strana, alcuni ritengono che la prima strofa appartenga ad un momento in cui l’uomo dialoga con la donna rivelandole il suo finito amore, nella seconda invece, si può pensare che lui resti solo con sè stesso e i suoi pensieri.
Verranno a chiederti del nostro amore (1973)
De Andrè racconta la fine di un’ amore ma indaga anche sulle cause che hanno condotto al culmine della storia. Si tratta di un mix di emozioni, tra dolore, sconforto e rammarico che confluiscono nella consapevolezza di non essere riusciti a cambiare le cose “non sono riuscito a cambiarti, non mi hai cambiato lo sai“. Ma dal testo si evince inoltre la necessità di continuare ad avere rispetto di una storia d’amore lunga nonostante la separazione.
Amore che vieni amore che vai (1968)
Qui l’amore è il vero protagonista. Faber ha sempre parlato dell’amore come sentimento travolgente, come una passione inappagabile, ma che è destinata a non durare nel tempo. Come dice il titolo, l’amore viene e va ed è innegabile il fatto che sia un inno alla caducità del sentimento stesso. In questo testo imperano le citazioni, soprattutto il riferimento alle Odi di Catullo. Tale composizione è da considerarsi alla stregua della poesia perché evoca e sintetizza, tra originalità e opportune citazioni, le qualità del sentimento che rende felici le nostre vite: l’amore. Anche se viene e va.
Crêuza de mä (1984)
Interamente in dialetto ligure, come l’intero disco dall’omonimo titolo. Se dovessimo fornire una traduzione si potrebbe parlare di “viottolo di mare”, ovvero la strada che delimita due proprietà e che porta sempre al mare. Nell’idioma genovese De Andrè riscopre un linguaggio antico, tra i più usati nel Mediterraneo nell’ambito della navigazione e degli scambi commerciali, arricchitosi nei secoli di innumerevoli influenze, con espressioni dal greco, dall’arabo, dal francese e dallo spagnolo. Protagonisti del testo sono i marinai e le loro vite da eterni viaggiatori, ma anche le loro sensazioni e le esperieze vissute sulla loro pelle. L’album omonimo è stato considerato una delle pietre miliari della musica degli anni ’80 e Byrne ha dichiarato a Rolling Stone che si tratta di di uno dei dieci dischi più importanti nel panormama internazionale musicale del decennio.
La guerra di piero (1968)
Frutto dei racconti di guerra dello zio materno Francesco, sopravivissuto alla campagna d’Albania. Si tratta del punto di vista di un semplice soldato che aveva vissuto il conflitto in prima persona. Un racconto dolce ma al contempo triste della contradditorietà e stupidità poste alla base della guerra. In questo testo tra la vita e la morte si innesta il tempo che a volte è un tramite a volte separazione.
Hotel Supramonte (1981)
Tra tutti i brani composti da Fabrizio De Andrè, questo forse è quello più emozionante per il significato che nasconde. Infatti il Supramonte è il posto della Sardegna in cui lui e la sua compagna Dori Ghezzi furono tenuti per 4 mesi a seguito del rapimento organizzato dalla malavita sarda nel 1979. Si tratta di uno dei luoghi più belli della regione, tra natura e buon cibo e per questo è facile trovarvi hotel e bar sparsi in tutto il territorio. Faber e la compagna furono liberati solo dopo il pagamento di un riscatto della somma di più di 500 milioni. Nel corso degli anni, l’artista genovese ha sempre sottolineato il lato umano dei rapitori, fornendo loro il suo perdono, cosa che invece non fece per i presunti mandanti del sequestro : “Ho perdonato loro [i sequestratori] perchè, potendoci fare del male, hanno scelto di trattarci bene. Vorrei che certi catoni, certa gente che mi dice ‘Dovevi prima impiccare e poi perdonare’, vivessero l’esperienza che abbiamo vissuto noi e provassero quanto è importante, in quelle condizioni, essere trattati con umanità”.
Don Raffaè (1990)
Il brigadiere Pasquale Cafiero che lavora nel carcere di Poggio Reale è il rpotagonista della ballata. Negli anni ha stretto amicizia con don Raffaè, un boss camorrista. Nella realtà don Raffaè era il boss della camorra Raffaele Cutolo che una volta venuto a conoscenza dell’esistenza del brano scrisse a De Andrè per congratularsi aggiungendo: “Non capisco come abbia fatto a cogliere la mia personalità e la mia situazione in carcere senza avermi mai incontrato”. In effetti nè Faber nè Massimo Bubola, coautore del brano, avevano avuto modo di informarsi precisamente sul personaggio prima della sua detenzione. Questa storia sottolinea le problematiche dei carceri e la corruzione diffusa tra le guardie e i boss. Particolare la scelta di utilizzare il dialetto napoletano ed il ritornello è, infatti, un rimando ad una canzone di Modugno del 1958 (‘O ccafè). Il resto della composizione individua una serie di pensieri in prima persona dello stesso brigadiere, che apre il giornale e inizia a discutere delle notizie che legge con don Raffaè, al quale chiede consigli e opinioni e – verso la fine – anche un lavoro per il fratello.
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