Venti anni di “Under My Skin” di Avril Lavigne: l’emblema del teen-pop
Sono passati ben venti anni dall’uscita del secondo album di Avril Lavigne, “Under My Skin“, che nel 2004 ha consolidato il suo successo a livello internazionale.
Era l’anno in cui Britney Spears cantava “Toxic“, gli Arcade Fire pubblicavano “Funeral” e gli U2 scuotevano i fan con l’album “How to Dismantle an Atomic Bomb“. Al cinema uscivano kolossal come “Troy“, “Le pagine della nostra vita“, “Se mi lasci ti cancello“. In Italia Federico Moccia faceva sognare milioni di teenager con “3 metri sopra il cielo“, dando vita alla tradizione dei lucchetti.
Erano gli anni in cui Disney Channel rivoluzionava il teen pop, il genere musicale amato dagli adolescenti, caratterizzato da orecchiabilità, piacevolezza nell’ascolto, durata contenuta (tre minuti circa) e temi semplici che permettevano una rapida identificazione tra pubblico e artista, tra adolescenti con Mp3 e idol teen.
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Ma a conquistare le classifiche statunitensi e non solo, è una versione cupa di Hannah Montana: con il successo di Complicated (2002), nasceva il fenomeno Avril Lavigne. Nata nel 1984 in una famiglia di origine franco-canadese, la bambolina col broncio e la matita nera, dalla voce celestiale e dallo stile tendente al punk, aveva milioni di fan a soli 19 anni.
Dopo lo strabiliante ed inaspettato successo del suo album d’esordio “Let Go” – complice il team The Matrix, conosciuto per la produzione di hit di Britney Spears e Ricky Martin -, nel 2004 la giovane cantante colpisce ancora con il secondo disco, “Under My Skin“.
Questa volta Avril Lavigne si rivolge alla cantautrice canadese Chantal Kreviazuk, al chitarrista Evan Taubenfeld e a produttori come Butch Walker (Marvelous 3), Raine Maida (Our Lady Peace) e Don Gilmore (Linkin Park, Pearl Jam). Ma la cantante ci tiene a curare personalmente ogni aspetto del suo secondo album, in cui infatti non si perde la sua essenza – ben apprezzata in “Let Go“.
Nessun cambiamento radicale dunque nel disco della teen idol appena diciannovenne: non a caso alcune tracks possono ricordare il ritmo accelerato, punteggiante di “Sk8ter Boy”. Anzi gli ascoltatori più esperti avvertono un notevole glow up musicale. “Under My Skin” è stato considerato da molti il disco dell’avvenuta maturità e di una presa di coscienza da parte della cantante, non più una bambina velocemente cresciuta ma una ragazza con le idee più chiare.
Eppure, soprattutto a chi ascoltasse il disco per la prima volta oggi, a venti anni dalla sua uscita, i 13 brani sembrano essere proprio l’emblema del teen pop, dell’epoca dei videoclip di Mtv e degli show musicali di Disney Channel tipici dei primi anni 2000.
Non tanto per le sonorità o per le doti vocali della giovane artista, quanto per i testi e gli argomenti trattati – soprattutto per come vengono trattati. In “Under My Skin“, Avril Lavigne canta tipiche angosce adolescenziali, ostinate proteste e ribellioni contro tutto e tutti, sognando l’anarchia e la libertà di pensiero. Con l’emblematica vulnerabilità e irrisolutezza di un’adolescente alle prese con le prime delusioni d’amore, per cui si alternano momenti ottimisti (“Who knows“) e prese di posizione ben decise (“Don’t tell” e “I Always Get What I Want“) a melodie più cupe e malinconiche (“Forgotten” e “Nobody’s home”).
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Infatti, Avril Lavigne passa dalla necessità di aggrapparsi a qualcuno che si prenda cura di lei e la porti via con sé in “Take me away” a cantare “Quando sono sola mi sento molto meglio, quando siamo insieme non va affatto bene […] Insieme costruiamo muri” in “Together“. Fino all’ostinata affermazione della propria indipendenza in “Don’t tell me“: “Nessuno capisce, sono davvero annoiata, non trattarmi con sufficienza, non provare a dirmi cosa fare/dire“.
In “He wasn’t” ci sembra di entrare nella cameretta della giovanissima Avril alle prese con la delusione delle proprie aspettative amorose, che decide dunque di “passare il pomeriggio sola sul letto fissando il telefono“, a mordersi le unghie, ad annoiarsi. Torna invece ad avere un atteggiamento fiero, quasi al limite dell’impertinente in “How does it feel” in cui chiede “Come ci si sente ad essere diversi da me?“, per poi ricadere nel vortice del ripensamento mentre immagina come sarebbe dovuta andare con il suo ex in “My happy ending“.
La malinconia tocca l’apice in “Nobody’s home” che parla di una ragazza che vuole tornare a casa ma non ha nessuno e soprattutto nessun posto in cui andare. Avril sembra superare la sua storia deludente con un sentimento di rabbia e un bisogno di rivalsa in “Forgotten“, prima di ritrovare l’ottimismo e la speranza nel lato imprevedibile e piacevolmente sorprendente della vita nel brano “Who knows“.
Con gli ultimi quattro brani entriamo direttamente nell’altalenante mente di una teenager: in “Fall in pieces” una cieca nostalgia e un ostinato rifiuto di affrontare il presente e le problematiche di una relazione che non funziona più le fanno cantare “Non voglio cadere a pezzi, non voglio parlarne e non voglio una conversazione. Voglio solo piangere davanti a te, non voglio parlarne perché ti amo“. In “Freak out” riprende il controllo sulla propria vita in solitaria, in cui pensa ad andare avanti senza ascoltare nessuno o dover per forza fare la cosa giusta.
“Mi manchi, mi manchi così tanto, non ti dimentico ed è così triste” – crolla di nuovo in “Slipped away“, prima di gridare al mondo “I Always Get What I Want“, reclamando il suo diritto a decidere cosa vuole, a non accettare un no come risposta e pretendere tutto quello che vuole dagli altri e dalla vita.
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Il secondo disco di Avril Lavigne potrebbe essere così riassunto: 13 brani molto orecchiabili e i cui testi sono talmente ripetitivi da entrare facilmente in testa, su una base di piano e synth che virano verso il punk-pop. Esattamente come comandano le regole del teen-pop che ha raggiuto il culmine proprio venti anni fa, nei primi anni 2000.
Ah, il tutto ovviamente cantato come un lungo sospiro, un lamento a metà tra “whatever” e “what if“, un un continuo sussurro sconcertato, da bambolina col viso imbronciato tendente all’emo.