Ugo Foscolo: quando la poesia rende immortali
Ugo Foscolo, nato Niccolò, nasce a Zacinto il 6 febbraio 1778 dal medico veneziano Andrea Foscolo e dalla greca Diamanthina Spathis.
Nato nell’isola greca, odierna Zante, all’epoca territorio della Serenissima Repubblica di Venezia, prese il nome Ugo nel 1795 in onore del capostipite della sua famiglia, la Gens Aurelia, che si trasferì da Roma nella Laguna Veneta, durante le invasioni germaniche, fondando Rialto. La Grecia e il collegamento ideale con la poesia di Omero e di Teocrito furono sempre un punto fisso per Foscolo.
I primi anni del suo peregrinare
Costretto dalla situazione economica difficile della famiglia ad emigrare in Dalmazia, nella città di Spalato, Ugo qui iniziò i suoi studi.
Nel 1788, in seguito alla morte del padre, i Foscolo fecero ritorno a Zacinto. L’anno seguente la madre decise di trasferirsi sola a Venezia lasciando i figli con gli zii e i nonni. Furono anni duri per Ugo che vedeva la sua famiglia, alla quale era estremamente attaccato, disgregarsi. Il ricongiungimento con la madre e i 3 fratelli avvenne solo nel 1792 nella stessa città lagunare.
Già dalla giovane età il poeta visse una situazione instabile, fatta di continui spostamenti che lo allontanavano dalle “sacre sponde” di Zacinto. La sua vita da esule era solo agli albori.
A Venezia Foscolo frequenta la scuola di San Cipriano a Murano e la Biblioteca Marciana, entrando in contatto con alcuni importanti intellettuali e letterati del tempo, tra cui Melchiorre Cesarotti e Ippolito Pindemonte, oltre a Isabella Teotochi Albrizzi, di cui il poeta si innamora.
Foscolo: poeta di nessuna corrente letteraria
Dimostra però un carattere ribelle, non avvezzo alle regole pre-imposte e anche in età più adulta continuò ad essere tale, come dimostrano le sue opere con i continui attacchi ai politici che gli costarono molte volte esili, più o meno volontari.
Nonostante questo carattere, negli anni veneziani si avvicinò alla lettura dei classici greci, latini (in particolare Ovidio, Orazio e Tibullo) e italiani (soprattutto Parini, Dante e Monti) nonché alle tesi illuministe di Rousseau.
L’irrequietudine del suo spirito, che non lo pone in nessuna corrente letteraria e poetica, lo fa appropinquare all’illuminismo e contemporaneamente al romanticismo e al neoclassicismo. Nelle sue opere sono rintracciabili Cicerone, Omero, Sallustio, Dante, Tasso, Montesquieu, Rosseau, Locke, Gray. La sua poetica, tutte le sue opere lo rendono un poeta fuori dagli schemi convenzionali.
Gli intellettuali illuministi, difensori della razionalità, vedevano nella concezione materialistica della vita un motivo di ottimismo, in quanto allontanava l’uomo dalla superstizione e dalla paura della morte facendolo vivere più tranquillamente. Per Foscolo tutto ciò era motivo di pessimismo e negatività. Il poeta di Zacinto reagì a ciò creandosi degli ideali propri. L’amore, la gloria, la libertà, la patria, l’eroismo, la bellezza, l’arte. Tutto ciò che gli illuministi definiscono “illusioni”, ma che per lui sono il motivo per andare avanti in una vita avara di gioie. La più importante delle “illusioni” è la gloria, l’unico strumento di immortalità. Per l’ateo Foscolo dopo la morte non vi è nulla. Solo l’aver fatto qualcosa in vita che sia degno di essere ricordato dai posteri, rende immortali.
L’attività politica e le delusioni
Attivo anche in politica, sotto l’influsso delle idee giacobine sviluppatesi nella Rivoluzione Francese si avvicina ai concetti di libertà e indipendenza nazionale. Compone la tragedia “Tieste” che però lo metterà in cattiva luce con il governo veneziano costringendolo ad andare a Bologna dove si arruolò anche nella Repubblica Cispadana. Qui compose l’ode “A Bonaparte liberatore” dimostrando la sua adesione alla politica napoleonica, tanto da tornare a Venezia per assumere il ruolo di segretario verbalizzatore delle sedute della Società d’istruzione pubblica del “Provvisorio Rappresentativo Governo” nella città che de facto era controllata dai francesi anche se ufficialmente Repubblica libera.
La passione politica e la stima nei confronti di Napoleone furono smorzati dal famoso Trattato di Campoformio del 1797 con cui Napoleone cedette Venezia all’Austria.
Decise quindi un esilio volontario dapprima in Firenze e in seguito a Milano dove entrò in contatto con personalità quali Parini e Monti, con il quale fu un continuo odi et amo. Così come con la moglie di quest’ultimo, Teresa Pikler, con la quale iniziò una tresca clandestina che lo logorò internamente. L’amore infelice con questa donna lo portò a tentare il suicidio, gesto eroico e romantico per eccellenza, ingoiando oppio, proprio come Jacopo Ortis, il cui amore per Teresa gli fu fatale.
E’ la sua crisi, il suo sentirsi estraneo al mondo che lo fanno essere “romantico”. Si rappresenta, infatti, come il classico eroe romantico, esule in ogni dove, avverso al mondo (ed il mondo avverso a lui) e condannato all’infelicità e alla solitudine. Romantico quindi. Ma al tempo stesso “fedele” alle dottrine materialistiche dell’Illuminismo. Ma anche in questo caso si pone in parziale contrasto con i dogmi illuminati.
Continua così il suo peregrinare che lo porterà di nuovo a Bologna, poi ancora a Milano dove ebbe una relazione con la nobildonna e intellettuale Antonietta Fagnani Arese, alla quale dedicherà nel 1803 l’ode “Alla amica risanata”, mentre prima ebbe una relazione con Isabella Roncioni alla quale si ispirò per la figura di Teresa nell’Ortis.
Nel 1804 va in Francia dove si arruola tra le truppe napoleoniche in chiave anti-inglese, traduce l’Iliade e ha una figlia da una donna inglese, per poi tornare di nuovo in Italia a Venezia dove era appena caduto il dominio austriaco. Stringe rapporti con Albrizzi, Cesarotti e Pindemonte e questo circolo letterario lo ispirerà per il carme “Dei Sepolcri”.
Gli ultimi anni da esiliato volontario
Negli anni seguenti ebbe la cattedra di Eloquenza all’Università di Pavia ma l’incarico gli fu revocato per i cattivi rapporti con il regime napoleonico. I contrasti con la politica dell’Empereur gli costarono anche la censura della tragedia “Ajace”, la cui presentazione alla Scala nel 1811 non ebbe successo.
Alla caduta di Napoleone a Lipsia nel 1813, con conseguente ritorno degli austriaci a Venezia decise per un nuovo esilio, questa volta in Svizzera.
Il suo eterno girovagare si conclude a Londra dove visse in ristrettezze economiche ma ebbe la possibilità di stringere i rapporti con la figlia. Dedicandosi inoltre alla critica letteraria, in particolare di Petrarca. Morì a Turnham Green nel 1827.
Vive e muore da esule, dimostrando anche di possedere notevole coraggio e di voler vivere in prima persona le sorti della res publica. Si arruolò, difatti, nella Guardia Nazionale della Repubblica Cisalpina per combattere per la sua patria. Per un’Italia unita e libera. Prese parte a numerose battaglie, come la difesa di Genova contro gli austriaci. Durante la battaglia di Cento rimase anche ferito ad una gamba. Una vita difficile vissuta con tutte le speranze giovanili tradite a più riprese.
Un novello Ulisse che non raggiunse mai la sua Itaca nè Penelope. Ha raggiunto però l’immortalità grazie ai suoi componimenti, come la sua idea della morte prevedeva.
“Sol chi non lascia eredità d’affetti
poca gioia ha dell’urna”
(Dei Sepolcri)