Trent’anni di “I soliti sospetti”, il thriller che ingannò il mondo
Sono passati trent’anni dall’uscita di “I soliti sospetti“ (1995), il capolavoro di Bryan Singer che ha lasciato un segno indelebile nel cinema thriller-noir.
Con una trama avvincente, un cast stellare – la consacrazione di Kevin Spacey – e uno dei colpi di scena più sorprendenti della storia del cinema, il film continua a essere un punto di riferimento per gli amanti del genere e per gli studiosi di narrativa cinematografica.
“I soliti sospetti” si apre con un’interrogatorio nella baia di San Pedro, in California. Il protagonista, Roger “Verbal” Kint (Kevin Spacey), è un piccolo truffatore che sopravvive a un massacro su una nave carica di droga. Mentre viene interrogato dall’agente speciale Dave Kujan (Chazz Palminteri), Verbal racconta gli eventi che hanno portato alla tragedia: cinque criminali – Dean Keaton (Gabriel Byrne), Michael McManus (Stephen Baldwin), Fred Fenster (Benicio del Toro), Todd Hockney (Kevin Pollak) e lui stesso – vengono coinvolti in una serie di crimini orchestrati da un misterioso e temuto signore del crimine, Keyser Söze. La storia si dipana attraverso flashback, in cui il pubblico è invitato a mettere insieme i pezzi dell’intricato puzzle narrativo. Ma è solo nel finale che il vero inganno si rivela: Keyser Söze è sempre stato sotto gli occhi di tutti.
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Il film vanta un cast straordinario, con interpretazioni memorabili – su tutte quella di Kevin Spacey -, che gli valse l’Oscar come Miglior attore non protagonista. Il personaggio di Verbal Kint è un esempio magistrale di costruzione psicologica, un uomo fragile e innocuo all’apparenza, ma che nasconde una mente brillante e manipolatrice.
La sceneggiatura di Christopher McQuarrie (anch’essa premiata con l’Oscar) è un intreccio perfetto di suspense e inganno, capace di coinvolgere lo spettatore fino all’ultimo secondo. Curioso pensare che l’idea per la scrittura de “I soliti sospetti” nasce da due elementi che intrecciano cinema e realtà: il titolo, ispirato da una battuta del film “Casablanca” (1942):
“Round up the usual suspects”
e il personaggio di Keyser Söze, basato su una combinazione di criminali reali e leggende metropolitane. Inoltre, il film deve molto allo stile di registi come Akira Kurosawa (Rashomon, 1950) per la narrazione soggettiva e ingannevole.
“I soliti sospetti” è un thriller-noir che deve il suo successo anche all’uso sapiente del montaggio, dei flashback e della voce narrante per costruire un intreccio che tiene lo spettatore incollato allo schermo. La regia di Bryan Singer è minimalista ma efficace, con inquadrature studiate per sottolineare la tensione e il mistero.
Un vero e proprio esercizio di storytelling visivo, in cui ogni dettaglio assume un nuovo significato alla seconda visione. L’importanza dell’inganno è il fulcro della pellicola: la manipolazione narrativa è tale che lo spettatore si ritrova a credere a una storia che si sgretola negli ultimi minuti. Il finale, con la rivelazione dell’identità di Keyser Söze e la celebre frase
“La beffa più grande che il diavolo abbia mai fatto è stata convincere il mondo che non esiste”
ha ridefinito il concetto di colpo di scena nel cinema.
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“I soliti sospetti” ha dato vita a numerose teorie: era tutto un’invenzione di Verbal? Quali eventi narrati sono reali? Anche dopo tre decenni, gli spettatori continuano a discutere e analizzare il film, testimoniando la sua profondità e complessità.
Nel panorama thriller-noir, il secondo film di Bryan Singer (che aveva esordito con “Public Access“) si colloca tra i film più influenti, accanto a opere come “Seven” (1995) e “Memento” (2000). Il suo uso dell’inganno narrativo ha influenzato pellicole successive come “Fight Club” (1999) e “Shutter Island “(2010), consolidando il suo status di cult movie.
“I soliti sospetti” ottenne due Oscar nel 1996 (Miglior sceneggiatura originale e Miglior attore non protagonista per Kevin Spacey) e numerosi altri riconoscimenti. A distanza di trent’anni resta un’opera imprescindibile, studiata dalle nuove leve cinematografiche e amata dagli spettatori di ogni generazione. Con il suo finale che ribalta ogni certezza, il film ha insegnato a milioni di spettatori a guardare oltre le apparenze e a rimettere in discussione tutto ciò che credono di sapere. Un’eredità che continua a vivere, come il mito stesso di Keyser Söze.