Tra cantautorato, psych e alternative rock, Kublai è il primo album di Teo Manzo
Registrato presso il Vicolo Studio di Milano e prodotto da Filippo Slaviero, è uscito lo scorso 4 dicembre il nuovo progetto solista di Teo Manzo, “Kublai”. Ne abbiamo parlato un po’ con il musicista e autore meneghino, vincitore del premio “Fabrizio De André” 2016 nella sezione “Poesia” con il suo “Le Piromani”.
Partiamo dalla tua decisione di uscire con questo debutto omonimo in un periodo così particolare. Non temi che l’impossibilità di una adeguata promozione live possa penalizzarne la diffusione? E, rimanendo sempre in tema, hai affrontato particolari difficoltà per registrarne tutte le tracce?
In verità le tracce erano già pronte prima dell’inizio dell’emergenza sanitaria, quindi non ho avuto esitazioni in questo senso. Per quanto riguarda la diffusione capisco le difficoltà, ma se queste cose mi preoccupassero avrei già smesso di fare canzoni da un pezzo. La mia musica “soffre” di problemi di diffusione endemicamente, per sua natura, da ben prima della pandemia.
Il progetto Kublai sembra averti allontanato dalla matrice cantautorale che caratterizzava la tua musica in precedenza, soprattutto per quanto concerne la “forma canzone” classica. Come mai questo cambio di indirizzo? E dove credi ti condurrà in un prossimo futuro?
Non so bene dove arriverò, ho cambiato direzione proprio perché – artisticamente – non sopporto più la premeditazione, che è una prerogativa del cantautorato. Mi riferisco allo scrivere musica nuda, la canzone spoglia rabberciata a tavolino, che “deve funzionare chitarra e voce”; la sua postura mi rende tutto prevedibile e noioso, che sia il farla o ascoltare quella degli altri. L’ho già fatto, l’ho già sentito, vado oltre.
A proposito del tuo progetto e del suo nome: cosa ti ha spinto a legare la tua nuova avventura a sette note alla memoria del nipote di Gengis Khan e quale metafora, quali significati sottende la storia che ci racconti nel disco?
Detto in poche parole, la suggestione è quella del dialogo, della collaborazione, ed è valida sia all’interno del disco che all’esterno. Nell’album si racconta la storia di una conversazione tra due amici, Kublai e Marco Polo, ma anche presi dal di fuori i pezzi sono nati da una collaborazione, quella con Filippo Slaviero. Tutto riconduce al rifiuto dell’autosufficienza, di assomigliare a sé stessi e basta (come i cantautori, appunto). Questo, in soldoni, è il manifesto del progetto e dell’album.
Durante il processo compositivo la parte relativa alla stesura dei testi (e del concept) ha preceduto quella strumentale o viceversa? Hai una formula rigorosa in questo senso?
Come dicevo, cerco di non avere regole o “maniere” fisse. In questo album, a parte qualche eccezione, i testi sono arrivati dopo, prima abbiamo fissato ritmi e suoni; e con ritmi e suoni intendo anche quelli delle parole, delle vocali, della scansione sillabica, che sono integrati nel contesto timbrico. I significati sono successivi e adattati di conseguenza. Ciò richiede una certa cura “letteraria”, per così dire, ma garantisce (insieme al mixaggio) che la voce non strabordi o, come sempre avviene nella musica italiana, calpesti tutto il resto.
Cessata l’emergenza Covid in corso, in che modo ti immagini ripartirà il mondo della musica e quali saranno gli scenari per chi non è inserito in circuiti mainstream?
La verità è che non lo so, non ho il polso per fare profezie. Posso immaginare che ci sia, almeno all’inizio, l’entusiasmo dovuto all’astinenza da concerto. Di più non saprei, navigo a vista come ho sempre fatto.
ph. Simone Pezzolati
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