“Tom à la ferme”: il dramma teatrale di Xavier Dolan
Nel 2013 il talentuoso Xavier Dolan diede vita al suo quarto film e per la prima volta propose una pellicola con una sceneggiatura non originale. “Tom à la ferme” (Tom alla fattoria) è difatti basato sull’omonima opera teatrale del 2011 del drammaturgo canadese Michel Marc Bouchard.
Qui l’enfant prodige tornò nuovamente a recitare e si cimentò in un genere da lui mai esplorato, il thriller psicologico. “Tom à la ferme” rispecchia il dramma teatrale alla perfezione. Pochi luoghi, pochi personaggi e dialoghi profondi e taglienti, consumati per la maggior parte del tempo tra quattro mura. Tutto contornato da una colonna sonora ansiogena, la quale va ad incrementare un climax di puro dramma che coinvolge in maniera non indifferente lo spettatore.
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Dolan riuscì, notevolmente, a far percepire i sentimenti e l’incubo vissuto dal protagonista Tom (Xavier Dolan) una volta giunto in quella che apparentemente sembra una tranquilla fattoria situata nella sperduta campagna.
LA CAMPAGNA COME LUOGO RETROGRADO E PERICOLOSO
La campagna, come nelle pellicole precedenti, assume da sempre una valenza negativa nella filmografia di Dolan. E in “Tom à la ferme” più che mai. Un luogo considerato retrogrado, pieno di pregiudizi e che non accetta, non può accettare la “diversità”, in questo caso quella che prende la forma dell’omosessualità, tematica centrale per il regista canadese.
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Questa non viene combattuta, semplicemente viene ignorata. Chiudere gli occhi è la soluzione. E nonostante gli impulsi siano evidenti e brucino dentro come tizzoni, fanno paura e vanno dunque soffocati. Il modo migliore? Prendersela con chi rispecchia ciò che non si ha il coraggio di essere e di accettare.
Il film si apre con Tom che guida, il quale si sta dirigendo verso una fattoria nel bel mezzo del Canada. Non è un viaggio di piacere, in quanto il protagonista sta andando al funerale del fidanzato Guillaume, scomparso prematuramente.
Nonostante il nervosismo all’idea di conoscere la famiglia dell’amato, Tom è convinto di poter ottenere un po’ di sollievo dall’incontro e condividere il dolore che lo attanaglia. Ma ben presto si rende conto che questo è ciò di quanto più lontano dalla realtà.
Tom, si trova di fronte ad Agathe (Lise Roy), una madre completamente ignara dell’omosessualità del figlio e un fratello, Francis, (Pierre-Yves Cardinal), violento, omofobo e non intenzionato a far crollare la messa in scena, preservando le bugie raccontate fino a quel momento sulla vita amorosa del fratello Guillaume.
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Solo, lontano dalla città, dalla sua casa e completamente frastornato, Tom si ritrova vittima di un vortice carico di tensione e di angoscia. Un vortice che, presto, diventa parte di lui stesso, all’interno del quale la forza per andarsene viene meno.
Costretto a subire le pressioni di Francis, che vacillano tra l’evidente impulso sessuale e il rifiuto e l’odio, che nient’altro è che odio verso sé stesso, Tom si ritrova all’interno di un triangolo malato in cui tutti i protagonisti cercano di sostituirsi al defunto, di cui non viene mai mostrato il volto.
Come nel precedente “Laurence Anyways” (2012), anche qui Dolan gioca con il formato delle immagini. Un formato che, nei momenti di maggiore drammaticità viene modificato. Questo si restringe in maniera talmente accentuata da far mancare il respiro anche agli spettatori.
Una claustrofobia e un’ansia talmente potenti vengono sprigionate da ogni fotogramma di “Tom à la ferme”, le quali riescono a far percepire agli spettatori la sensazione di essere vicini a Tom, in quella fattoria che prende le sembianze dell’assurdo, dell’incubo e della follia.
In questo thriller, in cui è possibile avvertire le sfumature dell’horror, il regista canadese si riconfermò ancora una volta un grande, per quanto giovane, talento.
Il cinema e lo stile di Dolan si insinuano all’interno, sotto pelle, nel profondo. Sensazioni che rimangono addosso, che scavano e cercano nell’anima, anche dopo molto tempo dalla fine della pellicola.