“The Spank”: quanto è difficile essere veri amici. Intervista a Valerio Binasco
Da domani e fino al 13 febbraio, al Teatro Parioli, sarà il coprotagonista insieme a Filippo Dini di “The Spank” di Hanif Kureishi: abbiamo raggiunto telefonicamente il pluripremiato attore e regista piemontese Valerio Binasco per una lunga chiacchierata sullo spettacolo e… sui “massimi sistemi”.
Partiamo dalla sua amicizia di lunga data con Dini: come è stato portare in scena un testo come quello di Kureishi, basato proprio sul lungo rapporto di amicizia dei due protagonisti? Cosa avete imparato di nuovo l’uno dell’altro?
La nostra amicizia è passata attraverso varie fasi: abbiamo frequentato la stessa accademia, poi siamo diventati entrambi giovani attori inquieti e poi, da regista, mi sono ritrovato Filippo come attore. Un attore fantastico. Adesso, invece, è capitato a me di essere diretto da lui, una specie di cerchio che si chiude, no? Tutto ciò che va al di là della stima e della simpatia reciproche, secondo me è stato detto in questo spettacolo, perché in scena parliamo molto e parliamo molto di noi. Devo dire che considero Filippo il miglior partner attoriale che ho mai avuto.
Quant’è difficile, anche in un rapporto di amicizia consolidato, mantenere una certa “immagine” che si dà di sé e, nello stesso tempo, rimanere fedeli alla propria vera identità?
Il problema dell’amicizia, spesso, è che in qualche modo ti inchioda alla tua immagine. Però il vero amico, per come la vedo io, ha il compito di accogliere i tuoi cambiamenti, anche quando non è facile. Deve porsi come obiettivo quello di superare certe “neutralità” ed ha quindi il compito di liberarci proprio dalla schiavitù della nostra immagine. Ecco perché stringere una vera amicizia può rivelarsi molto difficile ed ecco perché, nella maggior parte dei casi, una vera amicizia può risultare molto più incondizionata e anche più tenera rispetto ad una relazione amorosa, in cui, in qualche modo, per quello che si dà si cerca sempre di ottenere qualcosa in cambio.
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Chi è il suo personaggio, Sonny, anche tenendo in considerazione l’impareggiabile capacità di Kureishi di tratteggiare certi profili e certi contesti sociali tipico-londinesi? Aveva familiarità con la sua opera prima di questo spettacolo?
Avevo letto qualche libro dello scrittore anglo-pakistano, sì, e ritengo i suoi “Buddha delle periferie” e “Intimacy” dei veri capolavori. Per quanto riguarda il mio Sonny, devo dire che è diverso da quello immaginato da Kureishi, che lo voleva immigrato di prima generazione. Però con l’originale condivide certamente il “viaggio sentimentale” e il destino di dover giungere a qualche specie di lieto fine attraverso un percorso molto accidentato (che è poi una peculiarità di quasi tutti i personaggi da lui creati). Sonny è un uomo affetto da un certo narcisismo che si rivela nello stesso tempo fonte di vitalità e di dolore, e che si rivela particolarmente ingombrante quando si trova costretto a fare i conti con tutta una gamma di veri sentimenti che nel corso della sua esistenza è in qualche modo riuscito ad aggirare. La presa di coscienza del non essere tagliato per una vita familiare, lo porterà a sperimentare con estrema durezza sulla sua pelle il senso più pieno della solitudine e a doversi rapportare senza più infingimenti con il dolore, prima di ritrovare un equilibrio possibile.
Che impressione si è fatto della regia di Dini? Avete un’idea di teatro simile? E lei ha provato a fornirgli qualche suggerimento?
Credo di poter dire che abbiamo idee molto simili sul teatro e in particolar modo sulla recitazione (che a teatro è la cosa più importante, non dimentichiamocelo. La messa in scena è solo un “addobbo” della recitazione). Forse questo ci ha permesso di lavorare molto bene su questo spettacolo fin dalle prime prove. Io mi sono affidato a lui senza riserve, è un po’ quello che accade in certe squadre di calcio dove un giocatore sa sempre dove dovrà servire la palla al proprio compagno. Filippo sa sempre dove trovarmi.
La pièce si svolge in un tipico pub di Londra. Si può dire che locali di questo tipo siano i veri “luoghi dell’anima” per certe confessioni e perché lo sono?
Non so dire se effettivamente lo sono, però posso dire che esistono luoghi che sono dei non luoghi in grado di fornire ad ogni singolo individuo una meravigliosa alternativa a certe “clausure” familiari. In questi luoghi, ci si sente liberi, al sicuro, ed è per questo che ci si affeziona a loro così tanto. Essi proteggono dal cambiamento, fanno sì che le cose accadano pur rimanendo in qualche modo immobili. I luoghi come lo Spankies della pièce sono fonte di grande consolazione per un individuo. E questo tocca riconoscerlo anche a me che sono stato da sempre un apolide e non ho mai frequentato con continuità un bar o un pub.
Secondo lei, nella sua duplice veste di attore e regista, il Covid ha cambiato il modo di fare e di percepire il teatro? E, se sì, come immagina il teatro dei prossimi anni? Quale nuovo compito dovrà assolvere?
Sì, qualcosa è decisamente cambiato, anche perché abbiamo vissuto e continuiamo a vivere qualcosa di enorme tanto a livello individuale che collettivo. C’è da dire, però, che ancora non si è capito bene dove andare, ancora non si è capito bene cosa succederà al teatro da un punto di vista “rituale”. Io immagino che quello che gli attori hanno dovuto affrontare, in termini di precarietà, di lontananza dalla scena e di pura emotività, dovrà necessariamente portarli a cercare un riallineamento con il proprio pubblico. E questo presupporrà molta sensibilità e il desiderio di “mettersi in ascolto”, di non avere paura delle nostre paure. Io penso che non debba esserci troppa fretta nel trovare la risposta, comunque. Ci vorrà tempo.
Cosa la spinge, sempre nella medesima doppia veste di attore e regista, a scegliere un testo rispetto ad altri? Qual è la sfida che lei si pone sempre?
Di base, non mi affido a metodi di scelta particolari. Di solito, si tratta di casualità di incontri, di sollecitazioni improvvise. Delle volte, può accadermi anche di vedere una persona per strada o in televisione e ispirarmi, fare una scelta. Per esempio, quando ho voluto portare in scena Sogno di una notte di mezza estate, l’input è partito dalla terribile storia di Saman Abbas (la diciottenne pakistana uccisa a Novellara lo scorso anno, ndr) per ispirarmi. Altre volte, succede che a ispirarmi sia il semplice frammento di un testo: parto da lì e tutto “si crea”. Quando qualcosa è pronta nella mia immaginazione, mi faccio poi sempre una domanda fondamentale: ma se quello che voglio scrivere e poi recitare o far recitare fosse vero? Sarebbe credibile? Perché per me, se la realtà non guarda in quello che fai, nel testo che hai scelto, e non mi dice che gli appartiene, beh, allora so che si tratta di una cosa che non fa per me. Ho una corda realistica molto forte. E pazienza se ai giorni nostri risulta fuori moda.
Ha spesso dichiarato che il suo “incontro della vita” da un punto di vista artistico è stato quello con Carlo Cecchi, che considera un po’ come il suo mentore: le piacerebbe oggi ripetere un incontro di quel tipo con qualcuno, ma nelle vesti di mentore? O forse le è già accaduto?
No, non mi è mai accaduto, perché non credo di essere all’altezza della furia di Carlo, che per quanto mi riguarda ha una parentela con l’assoluto. Lui per me è un poeta, un poeta maledetto, dotato di una generosità che non mi è mai più capitato di vedere. È sempre stato una fonte di ispirazione e quello che ho appreso da lui non credo potrò restituirlo ad un altro. E comunque non avverto questa urgenza. Per ritornare alla metafora sportiva, non mi sento un campione, un fenomeno come invece è sicuramente lui.
In conclusione: tornerà un giorno a fare un film? E, se sì, cosa le piacerebbe girare?
Forse una storia d’amore, anzi, meglio, un film che parli d’amore e sia in grado di infondere sia negli attori che negli spettatori il coraggio di affrontare il viaggio che l’amore presuppone, pur sapendo che non finisce mai ed è pieno di tempeste. Io mi sento molto disincantato, devastato dalla vita, e, proprio per questo, penso che vorrei raccontarla e correre il rischio di ripetere ancora una volta gli stessi errori.
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