“The cats will know”, i versi di Pavese trascendono amore e morte
Se c’è una poesia che definisce l’epilogo della storia di Cesare Pavese, questa è molto probabilmente “The cats will know” . Ne conosciamo le ragioni con questo articolo che analizza testo e contesto verso dopo verso.
di Rosamaria Lisi* – “The cats will know” è una delle dieci poesie di Cesare Pavese ritrovate, all’indomani della sua morte, nella scrivania dell’ufficio della casa editrice Einaudi, dove aveva lavorato. Queste dieci poesie furono pubblicate nel volume postumo del 1951 “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi” che comprende anche un’altra raccolta, già precedentemente edita nel 1947, “La terra e la morte”. Il titolo complessivo del volume fu ripreso dal frontespizio che l’autore aveva scritto a mano per le dieci poesie, dedicate all’amata Constance Dowling, di cui otto sono in italiano e due in inglese.
Il componimento è formato da quattro strofe di lunghezza diseguale. I versi sono settenari regolari. Il ritmo è sempre quello riconoscibilissimo che Pavese aveva modellato in maniera assai originale, partendo dal verso lungo di Walt Whitman e che ritroviamo anche nella prosa lirica dei suoi romanzi. Si tratta di una cantilena, di una specie di ninna nanna che l’autore usa in modo diverso, ora come una nenia per incantare e addormentare la donna amata, ora come supplicata che tenda quasi all’implorazione.
La poesia si apre con la descrizione di azioni ed eventi abituali che si ripetono sempre uguali a se stessi, in un piccolo scorcio di città, dolce e domestico, fatto di selciati, su cui batte la pioggia e i passi di chi torna a casa, e di davanzali tra i cui fiori si muovono i gatti. L’anafora di “ancora” dà il senso dell’azione che si ripete. La prima volta l’avverbio è usato per introdurre delle sensazioni uditive molto attenuate (“la pioggia leggera/come un alito”) mentre nel verso 5 l’alito diventa una brezza, si passa ad una connotazione visiva e la bellissima metafora dei colori dell’alba che spuntano pian piano come fiori sotto il passo di un piede divino, introduce la figura dell’amata.
Tramite questo gioco raffinato di ripetizioni di termini e richiami di suoni e immagini – che man mano sfumano l’uno dentro l’altra – il poeta riesce a costruire parallelamente una doppia visione di lei: da una parte sentiamo il rumore dei suoi passi sul selciato romano mentre torna a casa e dall’altra la vediamo avanzare trasfigurata, nell’alba che sorge in cielo, quasi come una figura ultraterrena. Ma questa prima strofa si chiude improvvisamente con un verso oscuro: “i gatti lo sapranno”, una premonizione di morte che verrà ripetuta ancora nella parte centrale della poesia e all’inizio dell’ultima strofa.
Nella seconda strofa la sensazione di tristezza, che pervade tutto il componimento, si fa più esplicita. I verbi continuano ad essere usati al futuro, come nella prima ma ora capiamo che il poeta sta guardando lo scorrere della vita di colei che ama, quando lui non ci sarà più. Tornano le anafore e le ripetizioni ma i versi diventano lenti e brevi (“ci saranno altri giorni / ci saranno altre voci”). I periodi sintattici si riducono al verso stesso, non ci sono più enjambements che dilatano il discorso. Dopo i primi due versi, il terzo verso, isolato e formato da tre parole, esprime tutto il dolore nell’immagine della donna che sorride ormai sola. Lei continuerà ad ascoltare e a pronunciare le frasi ripetute centinaia di volte, ad osservare e effettuare i gesti convenzionali di sempre. Di nuovo, anche in questa strofa, in cui il poeta le si rivolge direttamente , torna l’immagine di lei come quella di una divinità: “viso di primavera” è il tenero epiteto usato nella seconda e che ritorna anche nella terza strofa che chiude la poesia. Qui, come in un cerchio, si ripetono a ritroso le immagini utilizzate finora, con una connotazione più chiara e precisa rispetto alla parte introduttiva.
“I gatti lo sapranno” è il verso che apre l’ultima strofa e il significato di morte che questa espressione porta con sé non è più adombrato sotto altre forme ma dichiarato esplicitamente alla donna a cui il poeta di nuovo si rivolge con il dolce appellativo “viso di primavera”. Il ritmo diventa veloce, tornano le immagini della pioggia e dell’alba ma trasformate dai versi che si chiudono in rima e acquistano un sapore di stampo romantico, così lontano dalla poesia di Pavese. L’alba “color giacinto” strazia il cuore del poeta che ormai non spera più nel suo amore. Il pathos crescente raggiunge il culmine nel dolore del sorriso di lei che sorride da sola e che ritorna di nuovo, dopo il verso 13, non più come evento futuro, bensì come realtà tragicamente presente.
Infine il ritmo rallenta, la poesia si avvia verso la conclusione, il presente è di nuovo sostituito da un indeterminato futuro di sofferenza. Pavese morì suicida in una stanza dell’Hotel Roma a Torino il 27 agosto 1950. Aveva appena ricevuto il Premio “Strega” per il suo ultimo romanzo “La luna e i falò”. In una lettera del 30 maggio del 1950 al critico Aldo Camerino leggiamo: “La luna è il libro che mi portavo dentro da più tempo e che ho più goduto a scrivere. Tanto che credo che per un pezzo – forse sempre – non farò più altro. Non conviene tentare troppo gli dèi”. In un’altra lettera inviata, nel mese successivo, sempre all’amico e critico letterario, Pavese scrive: “… vivere senza scrivere, non vivo”. Confrontando i due testi, la scelta del suicidio non appare come un gesto impulsivo né tanto meno plateale; sappiamo, infatti, che accanto al suo corpo fu ritrovato un biglietto in cui io scrittore chiedeva di non fare pettegolezzi sulla vicenda.
Anche in “The cats will know” questa drammatica scelta sembra essere una logica conseguenza, il punto di arrivo dí una via percorsa fino in fondo, “I gatti lo sapranno” è il verso che in inglese dà il titolo alla poesia e che per tre volte è presente al suo interno come un macabro ritornello. Apparentemente queste parole non hanno alcun senso e non si inseriscono in modo logico nel discorso portato avanti dall’autore. Basta però provare a comprendere a cosa voglia alludere, capire cos’è ciò “che sapranno i gatti”, per accorgersi che è proprio questo arcano verso a rivelarci il significato più profondo della poesia. Secondo un’antica credenza persiana i gatti hanno la capacità di presagire la morte di una persona.
Pavese utilizza questa leggenda per dire ciò che ormai non può essere più nominato direttamente. Forse, all’interno della raccolta, questo è il componimento più drammatico perché ora la scelta del suicidio pare quasi accettata. Nelle altre poesie avvertiamo ancora la lotta dell’io contro il proprio destino, il tentativo di mutare la realtà delle cose; in alcuni casi la morte viene nominata esplicitamente ma, proprio per questo, sembra essere esorcizzata con grande forza. Qui invece l’autore osserva lo scorrere degli eventi come al di là di un limite che non gliene permette più un accesso diretto. Egli è ormai uno spettatore che invita il lettore ad assistere insieme a lui alla triste parodia della vita che continua il suo corso.
In “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi” vi è la presenza costante di una figura femminile attorno alla quale ruotano tutte le poesie dell’intero volumetto. L’identificazione di lei con Constance Dowlíng, attrice americana che giunse in Italia per lavoro e che ebbe una relazione con Pavese negli ultimi anni della sua vita, risulta immediata innanzitutto per i riferimenti espliciti delle dediche. Così come l’ultimo romanzo “La luna e í falò” si apre con una massima di Shakespeare rivolta a Constance “for C. / Ripeness in all”) anche l’ultima raccolta in versi viene introdotta da una poesia in inglese il cui titolo recita “To C. from C.”. È sempre lei, la donna “venuta dal mare” come viene definita ne “Il mestiere di vivere” e in modo simile nel componimento iniziale di “La terra e la morte”, a dominare – a volte quasi ossessivamente – tutto il volume. In “The cats will know”, le caratteristiche fondamentali di questa musa ispiratrice, sviluppate in maniera molteplice e diversificata nelle altre poesie, vengono riassunte in due immagini.
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Innanzitutto lei appare come una forza primigenia capace di mettere in moto gli elementi della natura con i quali spesso si identifica: “Ancora la brezza e l’alba / fioriranno leggere / come sotto il tuo passo”. L’immagine del “passo leggero” è presente anche in “You, wind of March”, dove ancora più esplicitamente viene lodato il suo potere di riportare la vita dopo il gelo dell’inverno e di riaprire il dolore di chi non soffriva più. Comune alla fine delle due poesie è l’attributo dell’aurora, che diventa segno costante della presenza di lei, mentre l’appellativo “sangue di primavera” ritorna addolcito in “viso di primavera”.
In secondo luogo anche l’altra caratteristica, l’ermeticità di questa figura femminile, contro il cui silenzio e la cui chiusura il poeta lotta in quasi tutto il resto delle altre poesie, torna qui stemperata nell’immagine del suo sorriso. Altrove lei rappresenta l’archetipo della dea che ridendo si pone al di sopra delle cose; è presente nel mondo ma il mondo non la tocca perché vive a partire da un’altra realtà. Il sorriso di questa “terribile Venere”, come viene definita nei “Dialoghi con Leucò”, diventa lo specchio del più profondo dolore della condizione, oramai immutabile, di sofferenza del poeta.
* docente di lettere, italiano e latino