“Superunknown” compie 30 anni: l’urlo disperato di Chris Cornell nel masterpiece dei Soundgarden
“Superunknown“, dei Soundgarden, compie trent’anni, ma non è invecchiato di un giorno. A farlo siamo stati noi, esseri esteticamente e biologicamente imperfetti, legati a doppio filo al dio tempo e all’improcastinabile necessità di rallentare le lancette dell’orologio per godere del presente. Il quarto studio album della band di Seattle è, e resterà, invece impresso nelle pagine della storia, senza venire mai scalfito dall’usura o sbiadito dai ricordi. Inutile girarci intorno, parliamo di un capolavoro, di una pietra miliare del grunge e del rock più in generale, capace di attraversare indenne decadi, stili e mode senza perdere nulla dell’impatto emotivo e sonoro che lo contraddistinse al momento della sua pubblicazione.
Il disco della maturità artistica della formazione statunitense, probabilmente anche l’apice dell’espressività di quattro musicisti che, per loro stessa ammissione, si stavano affacciando all’età adulta, uscì nel marzo del 1994, periodo d’oro del Seattle sound. Per avere un’idea dell’esplosione di creatività che regnava in città in quel periodo, vale la pena ricordare che nel giro di pochi mesi gli Alice in Chains pubblicarono “Jar of Flies”, i Pearl Jam “Vitalogy”, gli Stone Temple Pilots “Purple” e Hole “Live Trough This”. L’anno prima, invece, i Nirvana diedero alle stampe “In Utero”, i Melvins “Houdini”, i Pearl Jam “VS” e i The Afghan Whigs “Gentleman”. In un contesto simile, dove la competizione e la competitività sono fattori determinanti per spingere un musicista a estrarre il coniglio dal cilindro, Chris Cornell, Kim Thayil, Ben Sheperd e Matt Cameron spiccarono il volo con “Superkunknown”.
Quindici canzoni, settanta minuti di musica, cinque singoli estratti furono il biglietto da visita con cui i Soundgarden si presentarono al mondo per conquistarlo e dominarlo dalla vetta più alta. Le registrazioni avvennero nella seconda metà del 1993 ai Bad Animals Studio di Seattle e la produzione fu affidata a Michael Beinhorn. Il pattern, pubblicato per la A&M Records portò un’evoluzione nel sound del gruppo, contaminato da elementi psichedelici e sgravato di arrangiamenti pesanti e talvolta grezzi, altresì influenzato dalla ricerca di un equilibrio tra la furia cieca delle precedenti esperienze e nuovi brani ancora più introspettivi e strettamente ancorati attorno alle fragilità emotive dei loro interpreti.
Chris Cornell su tutti. Proprio lui, nel 2014, dichiarò: “Personalmente, ero bene o male un ragazzo come tutti gli altri, direi non più un ragazzino, visto che quando ‘Superunknown’ uscì ero ormai prossimo ai trent’anni, ma per certi versi ancora molto ancorato agli anni più tormentati della mia vita. Quella generazione visse la contraddizione di dover essere per troppi aspetti molto più grande di quello che era in realtà, con tutti i danni che ciò comporta”.
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La Seattle generation, quella delle camice di flanella, dei jeans strappati e delle Converse. I ragazzi “emotivamente fragili o sconnessi” come venivano ingiustamente tacciati da sociologi improvvisati e stampa poco avvezza al music business, troppo ancorata su posizioni superficiali, bigotte e pateticamente ordinarie per rendersi conto di cosa le accadeva intorno. Una generazione, quella di metà anni Novanta, che stava cercando il suo posto nel mondo e che, attraverso il grunge, mostrava la propria personalità. Una rivoluzione musicale come poche altre negli ultimi cinquant’anni della storia della musica. I temi trattati dai Soundgarden e compagnia bella non erano certo di facile comprensione: paura, disordine, depressione, abuso di sostanze stupefacenti. E poi, ancora, crolli emotivi, difficoltà famigliari, disagio sociale e assenza di prospettive. Tutto ciò che rappresenta il lato oscuro delle nostre delicate esistenze.
La personalità della band crebbe, esattamente come la propria cifra stilistica che si concretizzò attorno alle influenze Seventies dei suoi componenti. Su tutto spiccava la voce di Chris Cornell, la cui propensione alla melodia e alle tonalità alte lo rendeva (e, in definitiva, lo ha reso) un’eccezione nel panorama musicale internazionale, riconoscibile tra mille, dai più imitato ma da nessuno mai eguagliato. Sempre nel rispondere alle domande del giornalista Luca Garrò, in merito ai suoi riferimenti musicali, spiegò che “ero un fan di quello che oggi chiamano Classic Rock, con i Led Zeppelin a ricoprire il ruolo del gruppo per eccellenza, ma ero anche un fan dei Pink Floyd e dal punto di vista compositivo ero forse più influenzato da loro che da altre band. Prima di Superunknown ero convinto di riuscire a scrivere solo liriche che fossero parte integrante dell’atmosfera creata dalla musica e forse non mi sentivo abbastanza sicuro per scrivere delle storie, magari mie storie. Inizia quasi solo per dimostrare a me stesso che non era la mia via di comporre canzoni e sarei tornato indietro subito se non avesse funzionato”.
Beinhorn raccontò, nel 1994 a Billboard, di come avrebbe sovraccaricato “il nastro fino al punto della distorsione, utilizzando un EQ massiccio e una compressione massiccia. Abbiamo sperimentato catene di quattro equalizzatori e quattro compressori in un’unica catena di segnali, su uno strumento. Il risultato finale è un disco incredibilmente denso e prepotentemente presente. C’è una sensazione tangibile di aria che viene spostata”.
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L’album si apre con “Let Me Drown“, “My Wave” e “Fell on Black Days“, le cui liriche sono un viaggio nell’anima oscura di Cornell in lotta con i suoi demoni: angoscia, claustrofobia, suicidio, malessere. Canzoni intrise di dolore e disperazione. Le successive “Mailman“, “Superunknown“, “Head Down” proseguono nell’incessante e drammatico sfogo del cantante e chitarrista, fino ad arrivare a”Black Hole Sun“, senza dubbio il brano più conosciuto del gruppo. L’arpeggio iniziale, la voce bassa, la dimensione di teatralità che pervade il sound e investe l’ascoltatore certificarono l’immensa qualità e l’immediato successo, complice anche il videoclip che spopolò tra i giovani anche grazie al supporto di MTV.
“The Day I Tried to Live” è una sorta di testamento del frontman dei Soundgarden. Basta leggerne la spiritualità nel ritornello che, tradotto, recita: “Il giorno che ho provato a vivere, ho rubato gli spiccioli ad un migliaio di mendicanti e li ho dati ai ricchi. Il giorno che ho provato a vincere mi sono dondolato nelle linee del potere e ho fatto impiccare i martiri“.
“Kickstand“, “Fresh Tendrils“, “4th of July“, “Half“, “Like Suicide” chiudono la tracklist di “Superunknown”. Quest’ultima, dalla durata di sette minuti, è specchio dello spleen di Chris Cornell che canta “Intontito in un letto di giardino con un collo rotto giace il mio regalo infranto proprio come un suicidio. Ed il mio ultimo fosso, era il mio ultimo mattone dato in prestito per finirla, finirla“.
Nel giugno del 2014, in occasione dei vent’anni dalla sua pubblicazione, “Superunknown” fu ristampato in una versione deluxe con il disco rimasterizzato, uno speciale mixaggio in Blue-ray Audio 5.1 S.S, oltre a demo, registrazioni e b-sides. In allegato con il cofanetto anche un libro con le memorie e i commenti di David Fricke, giornalista di Rolling Stone. A completare il tutto un rinnovato artwork realizzato dal disegnatore Josh Graham. Per il Record Store Day di quell’anno, il mese prima (il 19 aprile) tutti i singoli e le b-side di Superunknown verranno stampati in versione speciale su cinque vinili da 10’’ a tiratura limitata.
L’influenza che il quarto album dei Soundgarden ha avuto, ed ha tutt’ora, all’interno della scena rock internazionale non è quantificabile ma è tangibile. Un disco sicuramente ambizioso e di transizione per una band che non solo ha saputo rinnovarsi senza snaturarsi ma che, ed è questo il merito principale che va loro riconosciuto, ha stravolto quei canoni prestabiliti in un seno a un genere che, fino a quel momento, peccava forse di troppa autoreferenzialità. Chris Cornell, Kim Thayil, Ben Sheperd e Matt Cameron sono andati oltre. Molto oltre.