Parole & Suoni, De Silva spiega Every Breath You Take
Come meglio raccontare l’insieme di emozioni racchiuse nel testo di Every Breath You Take, uno degli inni dei Police, di quanto non abbia saputo fare Diego De Silva in “Terapia di Gruppo per amanti?” Un tributo a una canzone composta in un momento personale piuttosto difficile in cui si fa i conti con tutti i meccanismi della separazione. Di qui, la digressione che aggiunge al volume di De Silva un tocco di classe. Leggere per credere.
È questa réfola di primavera che, dal 1983 (anno della sua pubblicazione), mi manda addosso Every breath you take ogni volta (ma proprio ogni volta) che la sento. E quando questa réfola arriva, non c’è storia: qualsiasi cosa stia facendo mi fermo e mi abbandono al giro di la maggiore (con la nona aggiunta, tipico accordo dei Police) seguito a ruota dalla voce di Sting (Stingo, come lo chiama Stewart Copeland).
Non si tratta di quell’altra palla (che pure circola parecchio, riguardo al classico) secondo la quale ogni volta che vedi un classico ti sembra nuovo. Perché non si capisce come farebbe a sembrare nuova una cosa che hai visto dieci milioni di volte. Il classico (e qui torno a quello che dicevo all’inizio) non ha bisogno di sembrare nuovo per piacerti: soltanto, ti piace. E i veri piaceri non passano. E non ci sarebbe altro da aggiungere.
Il pezzo, per chi non lo sapesse (ma chi è che non conosce Every breath you take?), è la disperata preghiera di un innamorato che si logora nella separazione dall’amata, alla quale si rivolge in solitudine, dichiarando la propria incapacità di accettare la fine della loro storia:
Ogni tuo respiro
Ogni tuo movimento
Ogni promessa spezzata
Ogni tuo passo
Sarò lí a guardarti
Lasciarsi di comune accordo – lo sappiamo – è un’illusione, una bugia inventata per evitare la vergogna di far sapere in giro d’essere stati mollati. La verità è che è sempre uno (e uno solo) che prende la decisione di farla finita, e poco conta che l’altro si disperi e smadonni per sottrarsi all’abbandono.
A volte però succede che quello che si trova dalla parte sbagliata della decisione si chieda: «Ma perché la mia opinione non dovrebbe valere quanto la tua?»; e quando, seguendo questo tipo di logica (chiaramente paranoica), arriva a pensare: «Lei mi ha lasciato, ma io no», finisce per continuare a vivere come se il rapporto fosse ancora in corso, mentre l’altro (quello che ha deciso) vuole andare avanti con la sua, di vita, e si trova addosso la rivendicazione dell’ex, che pretende di comportarsi come se stessero ancora insieme.
È esattamente questo che fa il protagonista di Every breath you take: difende la propria incapacità di rassegnarsi; ammette, con impressionante spudoratezza, di voler essere l’ombra della sua ex, e rivendica il diritto di seguirla, pedinarla, controllarla in ogni attività della sua giornata, dal passo alla parola al respiro, addirittura al falso sorriso («Every smile you fake», una strofa che ha un tratto davvero psicopatico).
Ecco allora quel che rende a suo modo inquietante una canzone sostanzialmente romantica come Every breath you take: la sua rilettura alla luce delle nuove normative in materia di persecuzione.
E meno male che la legge non ha effetto retroattivo (perché è chiaro che la gente deve poter sapere, prima di agire, cosa è permesso e cosa è vietato), altrimenti dovremmo concludere che l’ultimo grande capolavoro dei Police è un inno allo stalking.
Da questo punto di vista, Sting si conferma un autore e una rockstar di assoluta avanguardia: chi mai, trentuno anni fa, avrebbe pensato di scegliere uno stalker come protagonista di una pop-song, facendola addirittura diventare una delle piú grandi hit della storia della musica leggera? Chi avrebbe mai concepito in musica e parole una patologia sentimentale cosí tremendamente pervasiva e attuale come la persecuzione amorosa?
«Oh can’t you see you belong to me? – Non ti rendi conto che mi appartieni?» canta Sting nel bel mezzo del brano; e non sa quanto quella meravigliosa strofa, anni e anni dopo, aderirà alla deriva del sentimento dell’amore che oggi conosciamo, e sempre piú spesso occupa tragicamente le pagine di cronaca nera.
«I’ll be watching you – Sarò lí a guardarti», scandisce il canto nel finale: una frase, a trent’anni di distanza, che se uno la immagina pronunciata al telefono da uno stalker, fa venir voglia di chiamare la polizia. Il gruppo, infatti (per me, la più grande band del mondo), si chiamava – appunto – The Police. (Diego De Silva)
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