Strage di Capaci, 31 anni dalla morte di Giovanni Falcone
Capaci è un piccolo comune a pochi km da Palermo. Neanche 12 mila anime. Ma quel 23 maggio del 1992 divenne il centro del mondo. Un’esplosione. Un boato. Fumo. Polvere. Macerie. E la morte. La disperazione.
Allo svincolo dell’A29, proprio verso questo paesino siciliano, 400 kg di tritolo spezzarono la vita di Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo e tre agenti della sua scorta.
La bomba fu posta da Cosa Nostra. L’organizzazione mafiosa colpì direttamente al cuore dello Stato. La mafia corleonese approfittò di un momento di forte debolezza del governo italiano.
Il 1992 fu l’anno in cui il pubblico ministero Antonio Di Pietro, molto apprezzato oltre Atlantico, arrestava l’ingegner Mario Chiesa, il presidente del Pio Albergo Trivulzio nonché membro di primo piano del Psi milanese. Iniziava Tangentopoli, l’inchiesta che avrebbe fatto fuori un’intera classe dirigente. Fu l’anno in cui divenne presidente del Consiglio Giuliano Amato, in grazia ai poteri forti, a metà strada tra il tecnico e il politico.
George Soros partecipò con altri speculatori ad un attacco contro la Banca d’Italia. Vendendo lire allo scoperto contribuì a causare una perdita valutaria pari a 48 miliardi di dollari. La conseguenza di questa azione speculativa fu che la moneta italiana riportò una perdita di valore del 30% e l’uscita dal Sistema Monetario Europeo.
STRAGE DI CAPACI: LE AVVISAGLIE
Falcone da anni, oltre alla mafia, dava fastidio anche ai suoi colleghi. Nel 1988 era il candidato favorito alla successione di Caponnetto alla guidia del pool antimafia. Il Consiglio Superiore della Magistratura nominò Antonino Meli. Fu eletto anche grazie al voto di Magistratura Democratica (la corrente vicina all’ex Partito Comunista).
Il 21 giugno del 1989 invece, nella villa al mare del magistrato fu ritrovato un borsone con 58 candelotti di dinamite. L’attentato fallì per colpa del detonatore difettoso. Una tesi che però non convinse molti. L’esplosione doveva avvenire proprio nel giorno che il giudice svizzero Carla Del Ponte era ospite di Falcone. Tornando a Palermo, dopo due anni di tensioni e veleni, il palermitano accettò la direzione della sezione Affari Penali voluta dall’allora ministro di Grazia e Giustizia Claudio Martelli.
Ilda Boccassini tre giorni dopo la morte nell’attentato di Capaci durante la commemorazione del magistrato ucciso che si svolse al palazzo di Giustizia di MilanoI si scagliò contro i suoi colleghi partendo da Gherardo Colombo: “Tu diffidavi di Falcone, perché sei andato ai suoi funerali?”. “Sabato – continuò il giudice milanese – sono andata a Palermo ma l’ho fatto alla chetichella, tardi, quando tutti se n’erano andati. E domenica mattina sono tornata presto all’obitorio, perché volevo essere sola come era stato solo Giovanni. Non volevo vedere lo scempio che si sta verificando oggi a Palermo, con i funerali di Stato. Voi avete fatto morire Giovanni Falcone, voi con la vostra indifferenza, le vostre critiche. C’è tra voi chi diceva che le bombe all’Addaura le aveva messe Giovanni o chi per lui”.
Nessuno ebbe il coraggio di risponderle.
FALCONE: CRITICATO IN VITA MA SANTIFICATO POST MORTEM
Ogni anno il 23 maggio Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo e i tre agenti che persero la vita quel giorno sono ricordati anche da chi nulla fece per evitare una morte praticamente annunciata.
Falcone fu lasciato solo. Dovette subire accuse e attacchi da ogni parte. Come quello di Alessandro Pizzorusso sulle pagine dell’Unità, su cui scrisse un articolo elencando i motivi per cui il magistrato palermitano non sarebbe dovuto diventare superprocuratore.
O ancora le parole di Leoluca Orlando (all’epoca sindaco di Palermo) durante trasmissione televisiva di Rai 3 Samarcanda, dedicata all’omicidio di Giovanni Bonsignore. Il primo cittadino di Palermo si scagliò contro Falcone che, a suo dire, avrebbe “tenuto chiusi nei cassetti” una serie di documenti riguardanti i delitti eccellenti della mafia. La risposta del magistrato fu dura:“Questo è un modo di far politica attraverso il sistema giudiziario che noi rifiutiamo. Se il sindaco di Palermo sa qualcosa, faccia nomi e cognomi, citi i fatti, si assuma le responsabilità di quel che ha detto. Altrimenti taccia: non è lecito parlare in assenza degli interessati”.
Così come anche altri giornalisti della carta stampata scrissero che portare rispetto a Falcone era difficile in alcuni momenti (articoli datati 9 gennaio 1992).
La sua figura, come quella di molti, post mortem è stata rivalutata da tutti. Chiunque ne parlava come un santo. Nonostante lo avesse infangato e non mosse un dito per salvaguardarlo.
Ma l’insegnamento del giudice Giovanni Falcone rimane, fortunatamente, inscalfibile nella memoria della gente per cui diede la vita. Più forte del tritolo esploso a Capaci.
“[la mafia] È un fatto umano, e come tutti i fatti umani ha un inizio e avrà anche una fine. Piuttosto bisogna rendersi conto che è un fenomeno terribilmente serio e molto grave e che si può vincere non pretendendo l’eroismo da inermi cittadini, ma impegnando in questa battaglia tutte le forze migliori delle istituzioni”.
In memoria di Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Antonio Montinaro, Rocco Dicillo e Vito Schifani.