Stan Lee, che ci insegnò l’arte nobile dell’intrattenimento
“Se ci pensi, c’è qualcosa di straordinario nell’avere qualcuno che tiene a te. Qualcuno che non ho mai incontrato, che potrebbe vivere dall’altra parte del mondo, ma che si preoccupa per te e con cui hai qualcosa da condividere. Questa cosa dei fan, penso che sia straordinaria, e li amo tutti”.
Salutava così i suoi fan Stan Lee, il volto più amato della Marvel, nell’ultima video-intervista rilasciata prima della sua scomparsa, il 12 novembre del 2018. Quando ci lasciò, il vuoto all’interno di quell’immenso immaginario creato con sudore e dedizione lungo cinquant’anni di carriera fu enorme. Per il sottoscritto, fu un lutto parziale. Vedevo persone attorno a me distrutte per la scomparsa di uno dei più grandi artisti dell’ultimo mezzo secolo, e capivo di non saperne abbastanza.
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Per me, Stan Lee era sempre stato l’uomo che si infilava come cameo nei film Marvel nati dal suo genio, ma anche il simpatico personaggio che vedevo comparire di tanto in tanto sul web a dispensare consigli tratti da qualche sua vecchia conferenza. E le conferenze e i camei sono, infatti, ciò per cui anche un lettore di fumetti occasionale come me conosce il suo nome.
Ma quello che ho sempre profondamente rispettato di Stan Lee è la lucidità con cui affrontava la natura del suo mestiere, e di riflesso il suo rapporto con il pubblico. C’è una sua vecchia dichiarazione che mi ha colpito particolarmente, e che mi piace riproporre anche a qui: “In passato mi sentivo davvero in imbarazzo, perché ero soltanto uno scrittore di fumetti e altri edificavano ponti o portavano avanti carriere mediche di successo. Poi però ho realizzato questo: l’intrattenimento è una delle cose più necessarie nella vita delle persone. Senza di esso potrebbero sprofondare in un baratro buio e profondo. Se si è capaci di intrattenere la gente, allora si sta facendo una bellissima cosa.”
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Non è soltanto la più profonda verità che si possa dire sul fare ‘arte’, ma anche una risposta che mi è tornata utile in più di un’occasione, quando il dibattito sulla natura ‘artistica’ dei cinecomics era più acceso di adesso. Specialmente su due questioni: se i cinecomics siano ascrivibili a un genere preciso e se possano aspirare ad una valenza artistica. Sulla prima questione è facile rispondere – ma a quanto pare no: i cinecomics non sono un genere, sono una fittizia macrocategoria. Parliamo di film tratti da fumetti, letteralmente. Lo sono Sin City e 300, ma anche Avengers e Watchmen. Possiamo ascriverli allo stesso genere? Possiamo dire che Avengers sia un neo-noir come Sin City? No, perfetto: questione chiusa.
Sul secondo punto, tornerei alle parole di Stan Lee. Nessuno meglio di lui ha espresso il concetto di intrattenimento in maniera più sincera e schietta. Certamente, è difficile mettere tutti d’accordo su un significato univoco di arte e intrattenimento, ma neppure è necessario avviare questo tipo di dialettica: basti il fatto che l’intrattenimento è una disciplina nobile, e la sua nobiltà deriva dalla semplicità con cui accontenta senza presunzione il gusto di un pubblico vasto. E la dignità di un film come il discussissimo ‘Avengers: Endgame’ deriva proprio da lì: un incasso stellare che ha regalato al pubblico la chiosa epica di una saga che è già storia del cinema contemporaneo. Tutti felici.
Occupandomi di cinema da diverso tempo ho avuto modo di rapportarmi con diversi tipi di film, divisibili alla buona in due grandi gruppi: i film per il pubblico e i film contro il pubblico. Mi viene da dire che ‘Joker’ sia un film appartenente a questa seconda categoria, nato come semplice provocazione commerciale. Un film che non ha una vera e propria trama, che apre le porte a un sequel che non ci sarà mai, che così com’è impacchettato viene soltanto a dirti: non sono un cinecomic.
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E infatti non lo è. Non solo perché non è tratto da un vero e proprio fumetto, o perché le sue ispirazioni – e aspirazioni – vengono dal cinema noir degli anni ’70, ma anche perché il film di Todd Philips si fa carico del luogo comune orbitante attorno al termine ‘cinecomic’ come ‘parco giochi’ per offrire, a suo dire, qualcosa di più, un’esperienza esistenziale.
Davanti a questo giochino intellettualistico, le parole di Stan Lee risuonano come un monito che non possiamo permetterci di dimenticare: intrattenere è un mestiere nobile e necessario. Un’arte umile che se esercitata con talento non spegne il cervello ma richiama dei piaceri semplici da cui siamo naturalmente attratti, pur dimenticandocelo o negandolo a noi stessi. E che in qualche frangente, e anzi più di qualcuno, ha saputo regalare al pubblico momenti antologici e indimenticabili, unendo generazioni distanti tra loro. È così che Stan Lee ha dimostrato di amare il suo pubblico, per cinquant’anni: rispettandolo. Questa è un’arte.