Il Grande Lebowski, manifesto beat per sognatori e disillusi cresciuti a Creedence e White Russian
“Drugo voleva solo il suo tappeto. Nessuna avidità.
È che dava… un tono all’ambiente”
Diciamolo apertamente, se non avete mai visto “Il Grande Lebowski” o avete vissuto sotto una campana di vetro oppure non siete mai stati in possesso di una televisione. In entrambi i casi la sostanza non cambia, la vostra vita è stata un pochino più povera.
Il 6 marzo del 1998 nelle sale cinematografiche degli Stati Uniti esordiva “Il Grande Lebowski”, settimo film dei fratelli Cohen. Accolto con scetticismo, anche perché uscito a distanza di due anni da “Fargo“, vincitore nel 1997 di due premi Oscar (“Miglior attrice protagonista” – Frances McDormand – e “Miglior sceneggiatura originale”) da cui si discostava totalmente per tone of voice e contenuti, è divenuto nel giro di poco tempo un cult imprescindibile per tutti gli amanti della settima arte, del cinema d’autore, delle frasi a effetto e delle storie bizzarre e oniriche.
“Il Grande Lebowski” è il manifesto beat per sognatori e disillusi, antonomasia di un modo di essere e di vivere cui tanti si rifanno, per vocazione o riflesso di una vita pigra e sonnolenta. Il Drugo (Jeff Bridges) è l’antieroe per eccellenza. Solitario per natura, votato alla noia e al torpore, incapace ad assumersi la responsabilità di agire e perennemente proiettato in un cosmo di sogni, white russian e bowling. Passioni, queste ultime due, elevate a stella polare da seguire e inseguire. Indolente e abitudinario e, proprio per tali ragioni, addirittura amabile nella sua sciapa vitalità.
” A lui non importa niente di niente, è un nichilista”
” Ah, dev’essere faticoso da morire”
Occhiali da sole, ciabatte, vestaglia, cartone di latte in mano e spinello sempre pronto all’uso; Jeffrey Lebowski è effige dell’ineluttabilità della vita che scorre via lenta e atarassica. Quella “Valle di lacrime” più volte citata nel corso della pellicola è la nostra società, antropologicamente parlando spesso priva di contenuti e votata all’apparenza, sempre ostentata e altresì frequentemente effimera e superficiale. Ma “il bowling non è la vita, qui ci sono regole“, come sosteneva un meraviglioso John Goodman, alias Walter Sobchak, reduce del Vietnam con la pistola sempre pronta all’uso ma dal cuore totalmente devoto agli amici.
Drugo, Walter e Donny (Steve Buscemi), presenza ininfluente nella sostanza ma obbligatoria nella forma all’interno del trio che ama passare serate intere a giocare a bowling. Già, ma contro chi? Contro Jesus, ovviamente. Quel John Turturro folle, kitch, visionario e rapito dall’appassionante sfida all’abbattimento dei birilli. Tanto competitivo quanto ambizioso nel presentarsi perfetto agli occhi dei tre scellerati compagni di giocate e bevute. Con lo smalto sull’ubghia del mignolo a rendere la personalità tanto estrosa quanto ridicola.
“Prova a fare una delle tue estronsate de pazzo, prova a tirare fuori el ferro… io te lo estrapo de mano, te lo metto en el culo e poi premo el grilletto hasta che siento el clic” – Jesus
Il cast di corredo alla pellicola, poi, è semplicemente straordinario: Julianne Moore, Sam Elliott, Peter Stormare, Flea, Philip Seymour Hoffman, Tara Reid. Attori premiati con numerosi riconoscimenti, musicisti tra i più celebrati nelle ultime decadi, caratteristi ricercati da ogni regista e sceneggiatore. Un calderone di follia, parzialmente ispirato al romanzo “Il grande sonno” di Raymond Chandler, magistralmente portato sul grande schermo dalla sceneggiature Cohen brothers. Un universo di dissennatezza e nichilismo, di sogni a occhi aperti e disillusione che anche a distanza di ventidue anni dalla sua uscita non perde nulla del fascino originale e continua a ispirare e affascinare intere generazioni di cinefili.