Sono le 8.15 del 6 agosto 1945: Hiroshima è rasa al suolo da Little Boy
Settantanove anni fa gli Stati Uniti sganciavano su Hiroshima, in Giappone, “Little Boy“, la prima bomba atomica della storia a essere utilizzata in un conflitto. Questa la testimonianza di Akihiro Takahashi (Hibakusha, sopravvissuto alla bomba atomica, ex-direttore del Peace Memorial Museum di Hiroshima) presa dalla Terza conferenza internazionale per la messa al bando dell’uranio impoverito. Hiroshima – 6 Agosto 2006. Testo tradotto da Francesco Iannuzzelli per www.peacelink.it .
“Mi chiamo Akihiro Tahakashi. In rappresentanza dei sopravvissuti al bombardamento di Hiroshima, sento un forte senso di responsabilità del raccontarvi la mia esperienza a riguardo durante questa conferenza contro l’uranio Impoverito. Nonostante tutto il tempo che è passato, e nonostante tante altre cose siano successe, la devastazione causata dal bomba atomica è scolpita nella mia memoria”.
Il 6 Agosto 1945, alle 8 e 15, la prima bomba atomica esplose su Hiroshima.
“Avevo 14 anni ed ero uno studente del secondo anno della scuola superiore. Mi trovavo nel campo da gioco della scuola a circa 1,4 chilometri dall’ipocentro, il punto dell’esplosione della bomba”.
“L’effetto complessivo provocato dal calore, dall’esplosione e dalle radiazioni della bomba atomica sono qualcosa che va oltre ogni immaginazione. Quasi tutta la città fu bruciata e rasa al suolo e la maggior parte della popolazione che ci viveva fu uccisa. Posso solo dire che un tale indiscriminato bombardamento fu di una atrocità diabolica e immorale. Secondo coloro che sganciarono la bomba, la completa distruzione di città e il massacro di civili innocenti e disarmati era un’azione giustificata per vincere la guerra”.
“Andate, soldati, andate!” – questa frase appariva nei libri di scuola che leggevo alle elementari
“Durante la guerra eravamo tutti sottoposti a un’educazione fortemente militarista. La maggioranza degli studenti delle scuole superiori di quel periodo davano per scontato che sarebbero diventati militari una volta finita la scuola. Io stesso pensavo di entrare nell’Aeronautica della Marina Militare presso Kasumigaura, nella prefettura di Ibaraki. A scuola indossavamo tutti un uniforme, giacchetta bianca con sette bottoni, pantaloni bianchi e un cappello anch’esso bianco. Ma la divisa dei piloti era molto più bella. I nostri insegnanti ci raccontavano di quale privilegio fosse diventare un pilota di aerei della Marina militare, e di come fosse giusto e necessario marciare in territorio nemico e uccidere più nemici possibile. E noi credevamo loro”.
“Ad ogni modo, il Giappone perse la guerra. Accadde quando ci rendemmo conto di quanto sbagliato fosse il militarismo; quando venimmo a conoscenza delle sofferenze e del dolore provocato dal Giappone ai nostri vicini asiatici. Sono convinto che la responsabilità principale della guerra è del governo giapponese che la cominciò… ma al tempo stesso mi sento profondamente dispiaciuto e in colpa come giapponese che visse durante la guerra, anche se al tempo ero solo un ragazzo. Mi fu insegnato che era giusto uccidere la gente, e lo credei”.
“Oggi, nonostante l’insegnamento ricevuto, mi pento profondamente delle mie convinzioni di allora. Durante la guerra, gli studenti delle scuole superiori venivano spesso chiamati a svolgere mansioni di vario tipo: invece che studiare, dovevamo demolire delle case di cittadini per ordine del governo”.
“Queste demolizioni servivano per creare delle zone tagliafuoco dove la gente potesse fuggire in caso di bombardamenti aerei statunitensi. I residenti delle case demolite non avevano altra scelta che abbandonare le loro abitazioni e trasferirsi altrove presso parenti o amici. Venivano evacuati con la forza su ordine del governo.
Il 6 agosto, poco prima dell’esplosione atomica, c’era stato un allarme aereo, rientrato subito dopo. Sentendoci al sicuro, eravamo andati all’aperto sul campo da gioco in attesa dell’inizio delle lezioni.
C’erano circa 150 studenti sul campo, dei quali circa 60 erano miei compagni di classe. Vedemmo in quel momento un bombardiere B29 statunitense che si avvicinava, nonostante l’allarme fosse rientrato. Non avremmo mai immaginato che questo aereo stesse trasportando una bomba atomica”.
“In Hiroshima, il cielo era perfettamente azzurro quel mattino. Sentendoci tranquilli, osservammo il B29 mentre volava sopra le nostre teste lasciando una bella scia bianca. A un certo punto il nostro insegnante corse fuori dalla stanza dei docenti gridando “Attenzione!”. Fu in quel momento che avvenne la tragedia”.
Sentii un incredibile rumore e un’oscurità totale coprì i miei occhi.
“Impossibilitato a vedere alcunché, non avevo idea di cosa fosse successo. Alcuni dicono che ci fu un lampo, ma non lo ricordo. Ho sentito dire che ci fu una intensa luce blu in tutte le direzioni, seguita da una potente esplosione. Fummo scaraventati via senza poter opporre alcuna resistenza”.
“Dopo un po’ ripresi conoscenza, mentre il fumo che aveva coperto tutto cominciò a diradarsi e un po’ di luce riapparve. Ero stato scaraventato a circa 10 metri rispetto a dove mi trovavo prima dell’esplosione ed ero caduto sul selciato. Era stata l’onda d’urto a gettarmi così lontano. Mi resi conto che anche gli altri 150 studenti erano stati scagliati in tutte le direzioni e giacevano a terra intorno al campo da gioco. La scuola, costruita in legno, era rasa al suolo. Ogni casa e ogni palazzo che circondava la scuola era crollato a causa dell’esplosione”.
Guardai in lontananza e non vidi nessuna casa, tutto era crollato a parte alcuni palazzi in cemento. “Oh no, Hiroshima è sparita”.
“Mi resi conto delle condizioni del mio corpo. La mia divisa scolastica era tutta bruciacchiata e lacerata. Al momento dell’esplosione della bomba atomica nel cielo, la mia uniforme aveva preso fuoco, bruciando fino a ridursi in brandelli. La pelle si era staccata dalla mia testa e lungo la mia schiena, fino alle braccia, alle mani e alla gambe. Potevo vedere la mia carne viva, rossa, esposta, con solo alcuni brandelli di pelle rimasti, bruciati dai raggi di calore. Rendendomi conto che le mie condizioni erano simili a quelle di molti altri studenti intorno a me, fui colto dal panico”.
“Scappa al fiume in caso di bombardamento aereo”.
Mi ricordai quello che mi era stato insegnato durante le prove di evacuazione. Lasciai allora il campo da gioco in direzione del fiume. Sulla strada sentii qualcuno chiamare il mio nome da dietro “Hey, Takahashi, Takahashi, aspettami, aspettami”. Mi girai e vidi un mio amico, Tatsuya Yamamoto. Mi stava chiamando. Eravamo compagni di classe, andavamo a scuola insieme tutti i giorni”.
“Stava piangendo, “Mamma, aiuto, aiuto”. Piangeva senza sosta. Gli dissi, “Smetti di piangere, è inutile. Muoviti invece o potremmo trovarci nei guai. Dobbiamo andarcene da qui, subito”. Un po’ lo scuotei e un po’ lo incoraggiai. Durante la guerra portavamo un cappellino che chiamavamo “berretta da combattimento.” Là dove copriva le nostre teste ci era rimasto ancora qualche capello, ma il resto era stato tutto bruciato dal calore. Il cappellino, naturalmente, era volato via.
Un gran numero di sopravvissuti stava scappando in tutte le direzioni. Tenevano le braccia dritte davanti a loro, mentre la pelle bruciata penzolava dalle loro dita.
I loro vestiti erano tutti stracciati.
Alcuni erano praticamente nudi, con la pelle assente e la carne viva a vista.
“Tutti scappavano, trascinandosi a piedi nudi, ciondolando. Sembrava una processione di fantasmi.
Molti nella processione erano gravemente feriti. Un ragazzo era ricoperto di frammenti di vetro dalla cintola in su, probabilmente si trattava di frammenti di una finestra frantumata dall’esplosione. Potevo vedere alcuni di questi frammenti anche nel mio corpo, in diversi punti, dal torace alle braccia. Una donna era coperta di sangue con un occhio che penzolava. Anche questo a causa dell’esplosione. Un uomo sulla sinistra era ustionato così gravemente che la pelle della sua schiena era completamente lacerata e mostrava la carne viva bruciata”.
“C’erano molti corpi morti. Tra di loro vidi una donna ridotta in condizioni indescrivibili. I suoi organi interni era sparsi per terra. Anche questo era dovuto all’esplosione. Vidi anche un bimbo che giaceva a fianco di una donna, probabilmente sua madre. Ambedue avevano delle ustioni molto gravi e la maggior parte della pelle mancava. Il bimbo emetteva un lamento acuto, era ancora vivo. Ma noi eravamo solo ragazzi, non potevamo fare nulla per salvarlo. Un cavallo giaceva morto, col suo collo in una mangiatoia e la pelle rimossa dalla gran parte del corpo.
Era una scena orribile, impossibile da descrivere a parole.
“Ci dirigemmo verso il fiume. I detriti delle case distrutte dall’esplosione bloccavano tutti i vicoli dalla strada principale verso il fiume. Era impossibile camminare normalmente. Ci arrampicavamo disperatamente sopra i detriti delle case, camminando a quattro zampe, e finalmente riuscimmo ad arrivare alla sponda del fiume. Non appena la raggiungemmo, i detriti delle case che avevamo appena attraversato presero fuoco. L’incendio si propagava velocemente e un’alta colonna di fumo si alzò nel cielo con un suono fragoroso, come l’eruzione di un vulcano. Ancora oggi ricordo quanto ero spaventato”.
“Fummo molto fortunati a fuggire dall’incendio. Il fuoco bruciava i detriti delle case che avevano spontaneamente preso fuoco per via del calore, e molti restarono intrappolati al loro interno senza alcune speranza di essere salvati. L’incendio avanzava rapidamente e molti sopravvissuti non ebbero altra scelta che abbandonare i propri cari mentre morivano tra le macerie. In un raggio di due chilometri dal centro dell’esplosione, il fuoco bruciò qualsiasi cosa incluse le case, per la maggior parte costruite in legno”.
“Mentre arrancavamo verso la riva del fiume, vedemmo un piccolo ponte che era miracolosamente rimasto intatto dopo l’esplosione. Quel ponte salvò le nostre vite. Attraversai il ponte e mi resi conto che il mio amico Yamamoto non era più con me. In seguito scoprii da sua madre che era stato portato a casa da un gentile straniero, ma morì dopo 6 settimane, il 16 settembre, a causa degli effetti delle radiazioni. Attraversai il ponte e arrivai sull’altra sponda da solo”. L’altra sponda era a 3 chilometri dall’esplosione. Fortunatamente l’incendio non arrivava fin lì.
““Ce l’ho fatta”, pensai. E mi lasciai andare. Non riuscii più a trattenere le lacrime. Al tempo stesso, mi accorsi che il mio corpo stava diventando caldo – terribilmente caldo – e quindi entrai nel fiume e mi immersi nell’acqua. L’acqua diede un grande sollievo al mio corpo ustionato.
Ero circondato da cadaveri galleggianti nel fiume. Sembrava l’inferno
Migliaia di persone stavano immergendo i loro corpi come me, ma molti morivano ed erano trasportati via dalla corrente del fiume. Subito dopo uscii dall’acqua e andai a una postazione di soccorso arrivata lì dalle montagne. Fui velocemente medicato e mi riposai.
“Molte vittime del bombardamento aspettavano in coda per una medicazione. All’improvviso, delle grosse gocce scure di pioggia cominciarono a cadere. Era la cosiddetta “pioggia nera”. La pioggia nera si era formata per via delle polveri alzatasi in cielo a causa dell’esplosione. Questa pioggia nera era radioattiva. Alcuni che furono esposti a questa pioggia svilupparono in seguito malattie tipiche di esposizione a radiazioni. Fortunatamente, mi trovavo al coperto in una tenda e non fui contaminato dalla pioggia.
Osservando la pioggia nera, sembrava tutto così strano: non avevo mai visto prima una cosa del genere
“Aspettai che la pioggia smettesse e mi incamminai verso casa da solo. Ero preoccupato, temevo di non farcela a camminare per 6 chilometri soffrendo di ustioni così gravi. Dopo aver camminato per un po’, sentii ancora qualcuno che mi chiamava: “Takahashi, Takahashi, portami a casa con te”. Era un lamento, che veniva dal lato della strada. Guardai meglio e trovai un mio compagno di classe, Tokujiro Hatta. Vivevamo nella stessa città e andavamo a scuola insieme tutti i giorni. Osservai il suo corpo: la pelle era caduta dalle piante dei piedi e la carne viva era visibile. Era impossibile per Hatta camminare”.
“Gli chiesi “Come hai fatto ad arrivare fin qui?”. Mi rispose che uno straniero molto gentile lo aveva portato su una bicicletta. Ero preoccupato, non sapevo come aiutarlo. Era un mio compagno di classe, non volevo andare a casa da solo e lasciarlo lì. Volevo aiutarlo in qualche modo, ma non sapevo come fare. Nella sfortuna di essere vittima del bombardamento, aveva avuto però la fortuna di non riportare altre ferite, per cui mi vennero in mente due idee per aiutarlo: – che camminasse carponi come un gatto o un cane, in modo che i suoi piedi non toccassero per terra – che camminasse sui talloni mentre io lo sostenevo da dietro”.
“Alternando questi due metodi riuscimmo a camminare insieme verso casa, ma molto lentamente, a passo di lumaca. Ancora adesso non ci posso credere che riuscimmo a farcela. Camminando in questo modo, ci riposavamo spesso sul ciglio della strada. In uno di questi momenti, notai mio zio e mia zia che si avvicinavano in lontananza. Fui felicissimo di vederli e li chiamai a gran voce. Anche loro erano sorpresi, non si aspettavano per niente di trovarmi in quel luogo. Erano sulla via del ritorno dalla campagna dopo aver visitato il funerale di un parente. Fummo estremamente fortunati a incontrarli”.
“Mio zio mi trasportò sulle spalle, mia zia portò il mio amico Hatta e in questo modo arrivammo finalmente a casa. Senza il loro aiuto, saremmo sicuramente morti lungo la strada e non avrei avuto la possibilità di parlarvi oggi. Io e il mio amico arrivammo finalmente a casa grazie a una barella recuperata da mio nonno. Una volta giunto a casa, mia madre mi spogliò tagliandomi i miei vestiti con le forbici, in modo da evitarmi il dolore che avrei provato nel togliermeli, sfregandoli contro le ferite aperte. Mi vestì con uno nuovo yukata, una specie di kimono dal cottone più sottile. In seguito venni a sapere che il mio amico Hatta morì per via delle radiazioni l’8 di Agosto, due giorni dopo il bombardamento”.
Le mie ustioni furono sottoposte a medicazione per un anno e mezzo.
Fortunatamente uno dei nostri conoscenti era un medico e faceva visita due volte al giorno, la mattino e la sera. Questo medico era però un otorinolaringoiatra e questo tipo di dottori di solito non hanno a che vedere con le ustioni; casomai sarebbe servito un chirurgo o un dermatologo. Non potevo comunque chiedere di più perché con la città completamente distrutta mancava tutto, dottori, infermieri, medicine e cibo.
Si stima che circa 300 medici e 1800 infermiere fossero in Hiroshima al momento del bombardamento, e più del 70% furono uccisi dalla bomba.
“La medicazione però era estremamente dolorosa. Le ustioni venivano coperte con bendaggi imbevuti di medicine. Ogni giorno il dottore veniva a rimuovere le bende. Siccome il calore dell’estate asciugava completamente le garze, restavano incollate alla ferita. Il dolore della rimozione delle bende era insopportabile: sangue e pus sgorgavano dalla ferita, e mi ricordo distintamente che urlavo “No! No! Fa male! Basta!”. Mio nonno lavava le garze, rimuovendo il sangue coagulato e il pus, e le sterilizzava nell’acqua bollente per il giorno dopo. Non c’erano altri trattamenti disponibili in Giappone dopo la guerra”.
“Sebbene sia sopravvissuto, dal 1971 soffro di epatite cronica che ritengo dovuta all’esposizione a radiazioni. Sono stato in ospedale 14 volte e al momento sono sottoposto a una cura che richiede 3 o 4 iniezioni alla settimana. Soffro di molti problemi. Posso dire di aver sperimentato tutti i tipi di trattamento, a parte quelli ostetrici, ginecologici, pediatrici e psichiatrici. Ogni giorno sono consapevole delle mie difficoltà e di quanto sia doloroso continuare a vivere in queste condizioni. Nella disperazione, a volte, mi sono chiesto perché continuare a vivere per soffrire così tanto. Ma tutte le volte che la disperazione mi ha colto, mi sono fatto coraggio dicendomi che se sono riuscito a sopravvivere alla bomba atomica allora devo continuare a vivere. Per questo sono ancora qui”.
Le cicatrici delle ustioni sono rimaste in molte parti del mio corpo. Fra queste, le ustioni sulla mia mano e sul braccio destro erano così gravi che dal gomito destro alle dita la pelle era caduta ed era visibile la carne viva.
Il mio gomito è stato quindi bloccato a un angolo di 120 gradi e da allora non posso più muoverlo.
Le dita della mano destra, a parte il pollice, sono rimaste piegate e non posso muoverle. Devo affrontare numerose difficoltà per via di questi impedimenti.
“Quattro delle mie dita non si muovono. Ho cheloidi sul mio polso. Di solito un’ustione guarisce in circa un mese. Quando le mie guarirono, grosse quantità di pelle si accumularono sulla cicatrice e ho dovuto rimuovere chirurgicamente numerosi cheloidi”.
“Ho anche una atipica unghia nera che cresce dal mio indice destro. Un frammento di vetro tagliò la radice di quest’unghia e, secondo un dermatologo, distrusse le cellule che la producono. Correttamente mi predisse che quest’unghia non sarebbe mai guarita. Cresce così spessa che non può essere tagliata con delle normali forbici. Di solito la lascio crescere 2 o 3 anni, dopodiché una crepa appare spontaneamente alla radice dell’unghia e cade da sola. Ho donato queste unghie al Peace Memorial Musem di Hiroshima, dove sono esposte nella sezione dedicata ai danni della bomba”.
“Anche i vestiti di Yamamoto, insieme a cui fuggii dopo il bombardamento, sono stati donati al Museo. Sua madre li aveva conservati come i suoi resti e i suoi parenti decisero di donarli al Museo nel giugno 2003”.
Rividi i vestiti del mio amico il 2 Agosto 2004, dopo 59 anni. Nel guardarli non riuscii a trattenere le lacrime. Perché gli Stati Uniti uccisero senza pietà 7200 studenti innocenti? Ancora sento una punta di odio verso gli Stati Uniti. Però l’odio non distrugge mai l’odio. Laddove c’è odio, non possiamo avere pace. Per quanto sia doloroso, dobbiamo superare i nostri sentimenti di odio. Anche nelle circostanze più terribili, non dobbiamo mai dimenticare di aprire il nostro cuore agli altri.
Ho riflettuto a lungo su questo dalla guerra in poi e lo tengo scolpito nella mia mente”.
Di circa 60 compagni di classe, solo 14 sono ancora vivi. Io sono uno dei pochi sopravvissuti.
Quasi 50, inclusi Yamamoto e Hatta, furono crudelmente uccisi dagli effetti della bomba atomica. Dalla guerra in poi, mi sono ripromesso di fare in modo che non siano morti invano. Vivo nella convinzione che sia dovere e responsabilità dei sopravvissuti riportare le voci inascoltate di coloro che sono deceduti. Vivo per conto dei miei amici morti“.
“Non importa quante volte cadiamo, noi, sopravvissuti alla bomba atomico, ci rialziamo sempre. E fino al nostro ultimo respiro continueremo tenacemente a lanciare appelli e azioni contro le guerre e per l’abolizione delle armi nucleari”.
“Se non rispettiamo il diritto internazionale, il mondo non conoscerà mai pace. Come abbiamo visto in Iraq, la vittoria, e certamente la pace, non possono essere ottenute con la forza. Dobbiamo dare valore a quanto costruito così faticosamente dalle nazioni del mondo ed essere determinati a vivere in coesistenza pacifica con gli altri popoli, le altre religioni e le altre culture.
Credo fermamente che solo su queste basi possiamo costruire un mondo sicuro e prospero.
“La famiglia umana deve affrontare la pesante eredità del ventesimo secolo, fatta di guerre, armi nucleari, terrorismo, riscaldamento globale, carestie, profughi, violenze e violazioni dei diritti umani. Se le persone che vivono nel ventunesimo secolo non riusciranno a risolvere questi problemi, il secolo corrente potrebbe essere l’ultimo degli esseri umani sulla Terra. Rafforzo continuamente la mia determinazione a vivere i giorni che mi rimangono su questo pianeta in piena consapevolezza e responsabilità. E voglio comunicare queste mie convinzioni e aspirazioni a tutti i cittadini del mondo. Grazie per la vostra attenzione. Grazie”.