Sinistra-Dio-Patria-“Padre padrone”: l’utopia di Rossellini nella bi-logica dei Taviani
Come è noto, l’ultimo atto rivoluzionario di Roberto Rossellini fu nel 1977 quello di imporre al Festival di Cannes il trionfo assoluto, critico, politico, commerciale e culturale di un film che era stato progettato a basso costo dai Fratelli Taviani per la televisione: Padre padrone. Non solo la pellicola si appropriava dell’idea rosselliniana di migrare dal grande al piccolo schermo, ma, come Rossellini, lo faceva per diffondere un sapere tutt’altro che ufficiale: quello dal basso, dei soggetti subalterni e degli affetti del quotidiano che sono senza voce nei documenti della Storia (cosa che, parallelamente, faceva Carlo Ginzburg con la Microstoria, altro orgoglio italiano nel mondo), e lo faceva parlando di linguaggi, plurali. Scosso dai tantissimi, feroci attacchi personali che ricevette per questa sua battaglia vinta, Roberto Rossellini, pochi giorni dopo la premiazione del film, morì.
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Nel tipico stile dell’eroismo metateatrale che è vero in quanto falso, portato alle vette estreme da Rossellini nel ’59 con Il Generale Della Rovere [cfr. Aprà], troviamo il vero ex pastore, glottologo Gavino Ledda, già vincitore del “Premio Viareggio opera prima” 1975, dove era stato premiato appunto per la sua autobiografia intitolata al Padre padrone, introdotto come figura documentaria nel film dei Taviani da una neorealistica voce fuori campo. La voice over informa il pubblico che la pellicola è liberamente ispirata al romanzo scritto da Ledda che vediamo porgere all’attore Omero Antonutti il bastone con cui dovrà interpretare la prima scena del padre per come è realmente avvenuta.
Questo collasso temporale tra reale documentaristico presente e film recitato nel passato accade anche una seconda volta, nel pre-finale, quando Ledda spiega che, se si fosse davvero “emancipato” dalla terra del padre, si sarebbe in realtà reso «mutto» della cultura che è incarnata da suo padre, perché questo film, come il romanzo, è in realtà voce di tutti i Sardi (e dei loro padri). In quel momento, Antonutti ripete l’azione dell’entrare nella classe elementare da cui, all’inizio del film, aveva strappato il figlio per farne un pastore, con il bastone frusta il banco e pronuncia, nuovamente, la minaccia che ora è chiaro non dipende né viene da lui: «Guai a chi ride di Gavvino! Oggi è toccato a Gavvino, domani toccherà a voi!» perché, per la gestione dello Stato, i padri sardi vivono nella fame e non possono permettersi di lasciare i bambini nella scuola dell’obbligo.
Papà Antonutti (attore che sarà poi feticcio amato dai Taviani) e Gavino attore (da adulto, Saverio Marconi) vivono lungo tutta la narrazione il rito di immagini, suoni e musiche che il ragazzo, per crescere, dovrà imparare a nominare con la lingua dell’italiano standard che lui, al contrario del padre, non possiede. I momenti dolcissimi in cui il genitore gli ha insegnato ad ascoltare gli animali e a sentire l’alba diventano parole quando, nell’insegnamento militare, Gavino è messo a confronto con i simboli dello Stato e dei vocabolari che si sovrappongono visivamente ai ricordi e al suono di una tromba. Questa è probabilmente la sequenza più bella di tutto il film ed è anche quella che spiega il titolo. Mentre i colori della bandiera, che si posizionano sempre più sul rosso, sventolano sul se stesso bambino, sul padre che ha la sua stessa camminata, sul paesaggio di Sardegna e sul W.C. accanto a cui, ora da adulto, sta lavorando, la voce di Gavino pronuncia in successione: bandiera, bandito, Stato, stazzo, ragazzo, infante, selvaggio, idillico, pastorale, pastorizzazione, deportazione, separazione, esclusione, masturbazione, libido, turgore, languido, livido, Padre, Patriarca, Padrino, Padreterno, Patrono, Elettrone, Nucleo. È palese che «padrone» non ha per Gavino un’accezione negativa ma dialettica e onnipotente nell’Immaginario.
Antonutti, che nella prima parte del film sorregge lungamente il figlio nella posa della Pietà di Michelangelo, diventa, così, Dio e Santo, come lo è «il Primo Paradiso del Padre», cioè P.P.P. (nel romanzo Teorema), lo stesso padre, immaginato e vero al contempo, del Padre cui sono dedicate le Poesie a Casarsa. Questo intende “Padrone”: come in Pasolini, è padronanza dei tanti linguaggi figurativi, fonetici, musicali, corporei, animali, magici: tutti sacri nella loro violenza. Nel “realismo magico” che contraddistingue i Taviani, la pecora dice a Gavino bambino che tenta di mungerla: «Tu mi hai bastonatto e io ti cacherò nel latte così tuo padre bastonerà a tte». Anche la violenza, edipica, così come quella tra gli animali e con gli animali (persino zoofila e di gruppo in questo film), è sacra e Gavino si fa «glottologo dei dialetti sardi» per interpretare e scrivere le voci dei padri.
L’associazione Dio-Patria-Padre-Sangue-Terra in Italia non nasce come un mito fascista novecentesco ma come costruzione ottocentesca (certamente feticistica) della virilità sociale del maschio risorgimentale in difesa di (e da) una molto idealizzata donna (madre-moglie castissima) e di una Nazione-Patria che sono nient’altro che la sublimazione di se stesso, sono il riflesso emotivo dell’io nella Patria-Donna e nei compagni fraterni speculari dell’io così come era già stato per i Giacobini (da loro deriva, non solo per i Taviani, l’asse Rivoluzione francese – Risorgimento – Resistenza [Cfr. Banti]).
È il narcisismo dei poeti, mitopoietico, che crea mondi, come quello della Patria, concetto nazionalistico fondato sull’aggressività sanguinaria [cfr. Anderson; Mosse]: crea autonarrazioni con cui l’io spiega a se stesso la vita e soprattutto la morte, il dopo la morte. Quello che immaginava davanti alla tomba dell’Ortis e dei Sepolcri Foscolo, lo scrivono pure i partigiani comunisti semianalfabeti alle famiglie nel giorno in cui sono condannati a morire, non è solo letteratura: la lettera di «Cirulli Ottavio» [riportata in Generazione ribelle. Diari e lettere dal 1943 al 1945, a cura di M. Avagliano, Einaudi, Torino 2006, pp. 223-24] rivendica la volontà del partigiano di morire per la Patria e avere sulla tomba un’effige che tramandi l’identità affettiva di essere «un italiano puro è vero. Miei figli il vostro papà sta sempre frà di voi e io muoio e sono fiero lo fatto per voi», un concetto talmente kitsch-sentimentale, inventato dalla politica, assurdo, irrazionale e basso, e, proprio per questo, nella vertigine del Sublime, talmente alto, Ideale di Croce, e travolgente da scavalcare qualsiasi facile binarismo di vero/falso, padre/figlio, amante/amata [cfr. E. K. Sedgwick; M. Blanco; M. Fusillo].
Questo scavalcamento era incarnato dal Vittorio De Sica impostore meschino eppure, proprio per questo, eroe Della Rovere. Si tratta di quella “logica dell’eppure” che è la base del masochismo [cfr. Th. Reik], è più vasta di quella aristotelica, supera il principio di non contraddizione, è simmetrica nelle emozioni positive e negative ed è quella che domina l’intera produzione dei Taviani e che chiede di capire che la dialettica Servo(figlio)-Padrone(padre) è una bi-logica che comprende il tutto nell’Uno, che è Padre e figlio, è amico e amico (con palese omoerotismo) e che, nei migliori film dei Taviani, non ammette vere protagoniste donne se non come cadaveri, mostri (rispettivamente Lea Massari e Laura Betti in Allonsanfàn) e sante vestite da uomo (Isabella Rossellini nel Prato, 1979).
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Questa cosa è riscontrabile anche nelle memorie dei Garibaldini che consideravano i compagni più giovani come ragazze sublimi, e le donne in trincea, travestite da uomo, come maschi [Cfr. Banti]. Tutto questo diventerà esplicito e scandaloso manifesto nel film Good Morning Babilonia (Taviani, 1987) che, non a caso, trova sempre in Antonutti il feticcio del Padre: due fratelli vengono ritratti specularmente per tutta la narrazione (possono sposarsi e mettere incinta la rispettiva donna solo contemporaneamente e simmetricamente, tutto insieme, nella specularità anche della costruzione visiva) e, davanti all’americanismo nascente di Griffith, messi in dubbio sulla propria identità, rivendicano: «Noi siamo i figli dei figli dei figli di Michelangelo e di Leonardo, di chi sei figlio tu?». Quella riappropriazione patria/patriottica/paterna è un’autocostruzione immaginata ma si regge pure su degli affetti veri, che dieci anni prima erano stati fortemente politici e persino ottimistici.
L’anno di Padre padrone era infatti il 1977, ovvero il momento in cui l’utopismo dei Taviani era autorizzato a credere che il “Movimento” extraparlamentare potesse cambiare la politica italiana. Il finale della pellicola, introdotto dalla ripetizione del Pipistrello di Strauss che, impazzando, riconnota di speranza i visi dei bambini minacciati, si focalizza in ultimo, in esterno, su due elementi che già chiudevano, con un significato opposto, Allonsanfàn (1974): il vento e la giacca rossa che su Mastroianni, traditore della spedizione Pisacane, bloccato dal dubbio se scappare o restare, restava tragicomicamente appesa per metà mentre lui veniva fucilato. In Padre padrone, il fischio del vento che, da solo, riempie il campo sonoro, sostiene il campo visivo che si stringe totalmente sul Rosso politico della giacca che Gavino Ledda tiene per intero addosso, di spalle a noi, rivolto al futuro.
Articolo di: Adriano Emi
BIBLIOGRAFIA CITATA:
APRà Adriano, In viaggio con Rossellini, Falsopiano, Alessandria 2006
AVAGLIANO Mario (a cura di), Generazione ribelle. Diari e lettere dal 1943 al 1945, Einaudi, Torino 2006
BANTI Alberto Maria, La nazione del Risorgimento: parentela, santità e onore alle origini dell’Italia unita, Einaudi, Torino 2000
BANTI Alberto Maria, L’onore della nazione. Identità sessuali e violenza nel nazionalismo europeo dal XVIII secolo alla Grande Guerra, Einaudi, Torino 2005
FUSILLO Massimo, L’altro e lo stesso. Teoria e storia del doppio, La Nuova Italia, Scandicci 1998
FUSILLO Massimo, Feticci. Letteratura, cinema, arti visive. Il Mulino, Bologna 2012
REIK Theodor, Il masochismo nell’uomo moderno [1941], Sugar, Milano 1963
MOSSE George, Sessualità e nazionalismo. Mentalità borghese e rispettabilità, Laterza, Roma-Bari 1984
SEDGWICK Eve Kosofsky, Stanze private. Epistemologia e politica della sessualità [1990], Carocci, Roma 2011
SEDGWICK Eve Kosofsky, FRANK Adam, Shame and its Sisters. A Silvan Tomkins Reader, Duke Univ. Press, Durham 1995
Adriano Emi – biografia
Adriano Emi, laureato con lode in Giurisprudenza (Sapienza), e Lettere (L’Aquila), è specializzando in Cinema e Teatro presso Roma Tre. È autore del volume monografico Franca Valeri, l’opera e il mito (Aracne, 2017), introdotto dal prof. Massimo Fusillo, con prefazione e postfazione di Franca Valeri che, per i meriti riconosciuti da questa tesi divenuta libro, è stata onorata della laurea magistrale honoris causa in Studi Letterari e Culturali da parte del Dipartimento di Scienze Umane dell’Università dell’Aquila il 10 maggio 2017 con Laudatio del prof. Massimo Fusillo.
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