Schwa, una vocale non crea l’inclusione
Nell’epoca dell’egualitarismo e del voler cambiare ogni cosa in nome dell’uguaglianza, la lingua non poteva mancare nei tentativi fantarivoluzionari dei fobici della diversità.
Se a petaloso si è piegata anche la Crusca, riguardo lo schwa l’Accademia e i maggiori linguisti come Claudio Marazzini (presidente della Crusca), Cecilia Robustelli, sembrano uniti a rifiutarla. Non in nome di un sessismo di fondo ma semplicemente per profonda conoscenza della lingua italiana. Mentre il Miur nei propri documenti ufficiali ha cominciato ad usare questa vocale in nome dell’inclusione.
Cosa è lo schwa
Ma andiamo per gradi. Cosa è lo schwa? È una vocale indefinita. Quella che nel trapezio di Jones si forma nel mezzo del palato. E che in italiano, forse stupirà qualcuno, non esiste. Al massimo è rintracciabile in dialetti come il napoletano.
Nella lingua derivante dal latino volgare, prodotta da Dante, Monti, Foscolo, Leopardi e Manzoni questa vocale non viene mai rintracciata. Né come suono né come segno.
E allora da dove salta fuori? Andando a spulciare le lingue di sostrato, come ad esempio l’etrusco, essa non compare.
È uscendo dai confini italiani, per esempio nel bulgaro-macedone, nel romeno e nell’albanese che lo ritroviamo. Lo ə però non è presente nel sistema fonologico latino (da cui deriva il romeno) né in quello greco. Non è perciò un fenomeno di sostrato, soprattutto dopo l’analisi della sussistenza della prova corografica indicata dal linguista Graziadio Isaia Ascoli. Cioè osservare se il fenomeno si verifica in tutto lo spazio geo-linguistico in cui si parlava la lingua di sostrato e con le stesse condizioni fonotattiche.
Ma anche nel paleoslavo (la più antica documentazione scritta di una lingua letteraria slavsa risalente al IX secolo d.C. e sostanzialmente una forma di bulgaro antico) non compare lo schwa. Può definirsi dunque un balcanismo ma non di sostrato avendo origini diverse, nelle lingue balcaniche, a seconda della lingua in cui si trova. Tranne che per l’albanese, in cui appare come un fenomeno di continuità, la vocale indefinita sembra essere più un’introduzione “recente”.
In italiano invece il tentativo di introdurlo è più legato alla lotta dei pari diritti tra uomini e donne. Il dilagare del politically correct applicato alle questioni di genere ha infatti individuato nella lingua tricolore uno dei maggiori colpevoli delle discriminazioni verso il gentil sesso. “Nonché strumento di punta del patriarcato“.
Sembra infatti che dire “tutti” sia discriminatorio. Non tenendo però conto dell’inesistenza del genere neutro in italiano. Genere andato perso nel passaggio da latino all’italiano. Transizione che di certo non è avvenuta né in un giorno. Né tantomeno per volere di uomini/maschi. L’evoluzione della lingua è infatti un fatto sociale accettato naturalmente dai parlanti.
Cosa che non sta avvenendo con lo schwa. Viste le continue polemiche.
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Chi sostiene l’utilità di questa vocale per indicare non solo maschile e femminile, ma anche chi non si riconosce in nessuno di questi generi, non tiene conto però di secoli di lingusitica.
Infatti bisogna partire dal presupposto che non è constatato da nessuna parte il fatto che la grammatica italiana preveda accordo tra genere e referente (le scarpe infatti come referente non sono femmine/donne, né il tavolo un maschietto). Indi per cui un genere grammaticale, o una desinenza morfosintattica, come può essere un -i alla fine di un plurale generico, non può essere considerato come un riferimento ad un referente maschile. Ma come una semplice convenzione arbitraria.
Le categorie grammaticali non hanno una relazione univoca con determinati modi di classificare i referenti Il linguaggio naturale, la lingua madre, si acquisisce. Non si impara come una L2.
Esiste pertanto una grammatica mentale dietro la competenza linguistica. Perciò “a me mi” non è così antigrammaticale (sebbene sia errore) come “tutt*/ə”. Oltre ad essere antigrammaticali sembrano anche una forzatura.
Altrimenti bisognerebbe considerare superato il concetto di grammaticalità e innatismo di Chomsky.
Ma soprattutto la battaglia per il riconoscimento del proprio essere, del proprio ruolo nella società difficilmente passerà attraverso una vocale alla fine di qualche parola. Tanto che ora molti linguisti e personalità di un certo spessore nel mondo della cultura italiana, come Alessandro Barbero e Massimo Cacciari, hanno firmato l’appello contro l’uso dello schwa.
Cecilia Robustelli, ordinaria di Linguistica italiana presso l’Università degli studi di Modena e Reggio Emilia, da anni collaboratrice dell’Accademia della Crusca, all’agenzia Dire ha dichiarato come “il genere grammaticale viene assegnato ai termini che si riferiscono agli esseri umani in base al sesso. Il genere socioculturale, cioè la costruzione, la percezione sociale di ciò che comporta l’appartenenza sessuale, rappresenta un passaggio successivo”.
Per Massimo Arcangeli questo tentativo di Michela Murgia & co. è “frutto di un perbenismo, superficiale e modaiolo, intenzionato ad azzerare secoli e secoli di evoluzione linguistica e culturale con la scusa dell’inclusività”.