Sanremo si, Sanremo no: “la terra dei cachi” che produce lavoro e genera polemiche
Elio e le Storie Tese, un gruppo di geni nella “terra dei cachi“. Since 1996. Quando si parla del Festival di Sanremo, tra i tanti volti, aneddoti e racconti che vengono in mente, mentre il naufragar c’è dolce nelle consuete e ordinarie polemiche che accompagnano la kermesse, non può che uscire fuori il nome della band meneghina. Irriverenti, provocatori, dissacratori, hanno fatto della critica che i “dotti” definiscono intelligente il proprio marchio di fabbrica.
Noi lo definiamo, molto più semplicemente, “perculare con classe“. Un po’ come Frank Zappa che cantava “Tengo na minchia tanta“, ecco. E giù, tutti a capire cosa intendesse, cosa volesse dire, dove volesse andare a parare. A scervellarsi sul significato intrinseco alla canzone. Quando, più semplicemente, Zappa, ci stava prendendo a tutti per i fondelli. Ma per un Elio che gioca con le parole e con la semantica italiana, troviamo un Amadeus che, invece, negli ultimi giorni non vi ha prestato particolare attenzione. Le gravose polemiche che gettano ombre sul festival della canzone italiana hanno investito anche il conduttore televisivo che, storicamente sobrio nel modo di essere e comportarsi, stavolta si è lasciato sfuggire qualche parola di troppo.
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Come riportato dal Corriere della Sera, a microfoni spenti e quindi privatamente si sarebbe sfogato affermando che “se non mi prende il Covid, rischio di farmi venire un infarto“. E’ stato un momento di rabbia, può capitare che le parole sfuggano al controllo della lingua, ma visto il periodo potrebbero risultare più indelicate del solito. Non gettiamo la croce su Amadeus però, sta lavorando al meglio per portare avanti un’edizione piena di incognite e incertezze. Uno scivolone, ci piace pensarlo così.
Ciò che invece ci aspetteremmo – questo sì – sarebbe una presa di posizione da parte degli addetti ai lavori simile a quella del ministro Franceschini il quale, senza troppi giri di parole, ha chiuso alla possibilità della presenza in sala del pubblico perché “l’Ariston è un teatro, e come tutti gli altri italiani è chiuso“. Rigido, irremovibile, coerente. Stupisce, nell’Italia di questi giorni attorniata da personalismi e fanatismi politici, trovare un ministro che resti fermo sulle proprie decisioni. Sulla stessa falsariga, anche il ministro della Sanità, Roberto Speranza.
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Ed è un concetto ben più che condivisibile, non tanto perché in omaggio alla coerenza quanto perché l’Italia, in questo periodo storico, non può permettersi il lusso di fare figli e figliastri, adottare due pesi e due misure a seconda delle circostanze e quindi selezionare gli strappi alla regola da portare avanti. Stupiscono anche le parole di Fiorella Mannoia, la cui delicatezza nell’affrontare tematiche di carattere socio-culturale-politico è indiscutibile. Il suo pensiero è realmente un faro per il nostro movimento. Ma in quest’occasione, qualche dubbio lo genera.
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Come riportato dall’Ansa: “Sanremo mette in moto una macchina enorme, è industria che crea lavoro. Noi siamo purtroppo considerati quelli che se cantano o no poco cambia, ma la questione non è così semplice”, ha dichiarato la durante un’intervista condotta da Gino Castaldo a ‘Magazzini musicali’ in onda su Radio2 e su RaiPlay. “Dietro Sanremo, sottolinea l’artista, “ci sono case discografiche, c’è lavoro, c’è ricerca, musicisti, arrangiatori, contratti”. Vero.
“Proprio per questo bisogna stare attenti a dire ‘lo rimandiamo’ o ‘se non si fa è uguale’. Non puoi andare in una casa automobilistica e dire, ‘questo modello esce un altro anno’. Non è così semplice perché per fare quel modello di macchina, proprio in quel momento, c’è stato dietro tanto lavoro, di tanta gente. Non so perché nella scala della cultura noi siamo sempre visti come fanalino di coda”. Tutto vero.
Tutto vero, ma come la mettiamo con la realtà?
Sono centinaia i teatri e i cinema chiusi in tutta Italia. Non sono anche loro un’industria che genera lavoro? Ci sono migliaia di professionalità ferme al palo, non si può guardare a Sanremo se non come a una delle punte dell’iceberg di un settore fermo, impalato per evidenti difficoltà, su cui capeggia un punto interrogativo per il futuro grande così. E allora non guardiamo esclusivamente a Sanremo come industria – perché lo è, fa bene la Mannoia a ricordarcelo – ma anche alle realtà meno mainstream oppure meno politicizzate. Anche loro devono essere tutelate.
Forse più di Sanremo, dove il fattore economico è preponderante e anche se quest’anno va in perdita ha ampi margini di recupero. Cosa che non si può dire per chi da un anno ha le saracinesche abbassate.
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Il Festival di Sanremo, a differenza di molte altre manifestazioni musicali, è soprattutto un evento televisivo. Gli spettatori da casa sono l’arma forte su cui far leva, non di certo le presenze in sala che si contano in numero ridotto, se letto in proporzione all’audience. Ed su questo che probabilmente bisognerebbe puntare, cioè sul rendere l’edizione di quest’anno maggiormente interattiva al fine di dare, a chi la segue a distanza, la possibilità di partecipare con ulteriore e rinnovato coinvolgimento.
Non più semplice spettatore dall’Ariston, ma parte attivo di uno show. E’ su questo, infatti, che si è perso tempo e ora la corsa a recuperare terreno è impari, tortuosa e impervia. Ma tutto verrà risolto, perché “Sanremo è Sanremo”. E voi non siete un cazzo, verrebbe da aggiungere citando l’inarrivabile Albertone.
Affermare, però, che “Sanremo è Sanremo” con annesse tutte le sviolinate sull’impatto economico che ha per il Paese, inizia a puzzare di vecchio e anche di retorica che ormai ha francamente stufato. Si tengano, dunque, in considerazione anche le realtà più piccole, quelle che lavorano con e per il territorio, in stretta connessione con chi su esso opera e chi per esso si muove.
L’Italia, di realtà come queste, ne è piena. Meritano di essere valorizzate, tutelate e tenute in piedi. Meritano considerazione, investimenti, attenzioni. Parliamo di realtà che danno lavoro a ragazzi o persone con qualche anno in più sulle spalle che altrimenti non ne avrebbero, che non hanno possibilità di andare altrove a cercare fortuna, che amano l’arte del teatro, dello spettacolo e dell’intrattenimento in maniera esagerata. Loro meritano più di una opportunità. E’ da loro che bisognerebbe ripartire, da chi, tra tanta fatica, sacrifici e rinunce, prova a costruire in zone dove la cultura dà sbocchi e salva vite.
Esistono i fattori trainanti, e Sanremo è uno di questi, ma non può diventare l’eccezione alla regola. Né deve ambire a esserlo.