Roman Polanski, quando il cinema salva
Roman Polanski, pilastro del cinema e personaggio estremamente discusso. Una vita difficile, un’infanzia rubata, la guerra, una moglie brutalmente assassinata in quella maledetta notte del 9 agosto 1969 per mano della Manson Family.
Un bambino mai nato, vittima anch’esso di quella notte, le accuse di molestie del 1977, l’arresto nel 2008 e, di conseguenza, l’essere messo al bando dall’industria cinematografica di Hollywood e l’esclusione dall’Accademia degli Oscar.
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Tutto questo è Roman Polanski, il quale con forza e dignità ha sempre cercato di rialzarsi, nonostante i duri colpi della vita, la quale non è stata di certo generosa nei suoi confronti. Un’artista che ha sempre dato tutto se stesso alla settima arte, una vita intera votata al cinema. E per questo non si può che essergli grati, nonostante tutto.
L’OLOCAUSTO E IL RICORDO DI QUELL’ESPERIENZA: “IL PIANISTA”
Roman Polanski nasce il 18 agosto del 1933 a Parigi da padre polacco e madre russa. L’artista restò molto poco nel paese natio, dal momento che nel 1936, a causa del crescente antisemitismo che stava dilagando, la sua famiglia decise di trasferirsi in Polonia, ma ben presto, la situazione divenne insostenibile anche lì. Il padre venne mandato nel campo di concentramento di Mauthausen, con il quale Roman, si ricongiunse all’età di 12 anni. La madre perse la vita nelle camere a gas.
Nonostante nel 1993 gli venne proposto di dirigere il film “Schindler’s List”, Roman rifiutò ed in un’intervista di qualche anno più tardi affermò che ancora non era il momento giusto per lui di rivivere tutto quel dolore, il coinvolgimento era troppo forte.
Dell’esperienza folle del nazismo, Roman Polanski ne parlerà molti anni dopo, in quello che è, senza dubbio, il suo lavoro più personale, “Il pianista” (2002), vincitore di 3 premi Oscar e della Palma d’oro al Festival di Cannes.
“Il pianista” narra la storia dell’ebreo-polacco Wladyslaw Szpilman, il quale, riuscito a fuggire dal tragico destino dei campi di concentramento, inizia a girovagare senza meta e con la paura di essere scoperto, accompagnato solo da solitudine e dolore.
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Tra i tanti film sull’Olocausto che sono stati girati nel corso degli anni, Polanski con “Il pianista” riuscì in maniera magistrale a ricreare l’iter completo di disumanizzazione e di abbandono di una qualsiasi empatia a cui furono sottoposti gli ebrei. In maniera del tutto efficace andò a mostrare l’unico punto di vista che davvero contasse per lui, quello delle vittime.
L’unico spiraglio di forza salvifica che Polanski volle evidenziare fu la forza dell’arte, capace anche negli abissi più oscuri della storia di ridare un minimo di luce all’esistenza dell’uomo.
Il momento chiave che rappresenta magistralmente questa forza salvifica è la celebre scena in cui il pianista suona Chopin nel bel mezzo della guerra. Riuscendo, in questo modo, a trovare la forza per resistere, sublimando il proprio dolore nella musica.
DAGLI ESORDI AL PERIODO AMERICANO
Al termine della guerra, Polanski studiò recitazione, teatro e regia e si diplomò nel 1959 presso la Scuola di Cinema di Lòdz, in Polonia. Nel 1962 girò il suo primo lungometraggio, “Il coltello nell’acqua”, in cui si scorsero immediatamente le tematiche centrali che avrebbero caratterizzato tutto il suo cinema successivo.
Un cinema influenzato dal genere surrealista di Luis Buñuel e dal cinema horror anni Cinquanta, in particolare da “Psyco” di Alfred Hitchcock. Negli anni successivi Polanski girò capolavori come “Repulsione” (1965) e pellicole meno impegnative come “Per favore non mordermi sul collo” (1967). Durante le riprese di quest’ultimo, Polanski incontrò quella che da lì a poco sarebbe diventata sua moglie, Sharon Tate.
Trasferitosi negli Stati Uniti con quest’ultima, Roman Polanski nel 1968 girò uno dei suoi film più celebri ed apprezzati, “Rosemary’s Baby“, il quale lo portò alla consacrazione sull’olimpo di Hollywood. In “Rosemary’s Baby” il regista raccontò l’orrore, il quale non è un luogo remoto e lontano. È all’interno della vita ordinaria, tra le mura di casa.
É nel cuore di un piccolo sogno borghese, in un palazzo prestigioso nel cuore di Manhattan. Carico di denunce sociali, nella sua pellicola Polanski parlò del diavolo, metafora del consumismo, dell’avidità e dell’arrivismo a qualunque costo.
Nel 1976, il regista chiuse la cosiddetta “Trilogia dell’appartamento” con “L’inquilino del terzo piano”, pellicola ansiogena, estremamente interessante e portatrice di un finale aperto e non ben delineato, su cui si discute ancora oggi.
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Nel 1986 girò “Pirati”, pellicola che non ottenne il successo desiderato. L’anno si rivelò però fondamentale per il regista, in quanto conobbe la donna che gli regalò un ritorno alla vita, dopo i macabri eventi del 1969, Emmanuelle Seigner. Successivamente Polanski girò diversi film che videro protagonista Emmanuele. Il thriller ambientato a Parigi “Frantic” del 1988 e l’audace “Luna di fiele” del 1992.
LA PIÈCE TEATRALE
Nel 2011 diresse “Carnage”, pellicola basata sulla pièce teatrale “Il dio del massacro” (2006) della drammaturga francese Yasmina Reza. Qui il regista andò ad esaminare e a denunciare in maniera estremamente convincente l’ipocrisia e la maschera della società borghese, portando alla luce una natura carica di egoismo e cattiveria.
Secondo il regista nessuno si salva e in “Carnage” Polanski diede un magistrale sfoggio di uno specchio della triste umanità, onesta e gentile in apparenza ma in realtà estremamente becera e violenta.
Nel 2013, rimanendo sempre in tema di pièce teatrali, Polanski diresse “Venere in pelliccia” con protagonista ancora una volta la moglie Emmanuelle.
Il film, che si svolge per l’intera durata in un teatro di Parigi, è ispirato all’omonimo testo teatrale di David Ives, tra l’altro co-sceneggiatore della pellicola, a sua volta ispirato al celebre romanzo erotico “Venere in pelliccia” dell’austriaco Leopold von Sacher-Masoch.
L’ultimo film girato da Polanski, “L’ufficiale e la spia“, risale al 2019 ed è tratto dal romanzo dello scrittore e giornalista inglese Robert Harris. La pellicola si svolge nel 1894, anno in cui il capitano francese di origini ebraiche Alfred Dreyfus venne ingiustamente condannato all’ergastolo che dovette scontare su un’isola nella Guyana francese, soprannominata “L’isola del Diavolo”.
Tutte le dolorose esperienza vissute da questo grande regista, incisero inevitabilmente in maniera sostanziale su quelli che furono i propri lavori. Come lui stesso dichiarò: “Ho vissuto tragedie, momenti difficili, ma ho avuto anche momenti che mi hanno ripagato di tutto ciò. Non è stato solo andare giù, è stato un andare su e giù“.