Road to Oscars 2021: Pinocchio
Ci sono figure che ci perseguitano, ci ossessionano e finiscono con l’intrufolarsi nell’immaginario collettivo di ciascuno di noi. Accade ai fumettisti che, a un certo punto della loro carriera, sentono il bisogno di misurarsi con figure come Tex Willer o Superman. Oppure ai musicisti, che sognano di omaggiare i Beatles, i Pink Floyd o Bob Dylan. E Tutto questo accade anche nel cinema.
Una delle storie che da sempre ha sedotto i più grandi cineasti della storia, è quella di Pinocchio: il burattino di legno protagonista del libro scritto nel 1881 da Carlo Collodi. Dal film del 1911 di Giulio Antomoro al lungometraggio di Walt Disney del 1940, passando per Steven Spielberg, fino al capolavoro di Luigi Comencini degli anni ’70, Pinocchio ha ispirato innumerevoli adattamenti cinematografici. L’ultima (ma non ultima) trasposizione è quella del 2019 di Matteo Garrone con Roberto Benigni e Gigi Proietti.
Con 5 David di Donatello e 6 Nastri d’Argento, tra cui quello per il miglior regista e per il miglior attore non protagonista allo stesso Benigni, l’opera del regista romano sarà in corsa ai 93esimi Academy Awards, il prossimo 25 aprile, nelle categorie miglior costumi e miglior trucco. Per sua stessa ammissione, Pinocchio rappresenta per Matteo Garrone una sorta di “fantasma che lo perseguita da quando aveva sei anni”. Il regista di Gomorra e Dogman trae ispirazione dai disegni originali del Mazzanti, l’illustratore che collaborò al capolavoro letterario di Collodi e scoperto in gioventù dal cineasta romano.
Il film si sviluppa parallelamente all’opera dello scrittore, rimanendo fedele alla storia originale e per valorizzare l’anima popolare del racconto, Garrone si avvale di un cast di prim’ordine che, per larga parte, quel mondo toscano lo conosce dal di dentro. Se il ruolo del protagonista è affidato al piccolo Federico Ielapi, è dopo la non brillantissima esperienza del 2002, che Roberto Benigni si cala di nuovo e con ritrovato entusiasmo nell’universo pinocchiesco, stavolta nei panni del malinconico e sommesso Geppetto.
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Da non sottovalutare, inoltre, le prove di Rocco Papaleo (Gatto) e Massimo Ceccherini (Volpe), che del film è anche co-sceneggiatore. E troppo facile sarebbe soffermarsi sulla teatrale figura di Mangiafuoco: nera, burbera, ma sotto sotto dal cuore grande, interpretata dall’immenso Gigi Proietti. E poi ancora Davide Marotta nei panni del Grillo Parlante e Marine Vacht in quelli della Fata Turchina. Ogni ruolo è al proprio posto in un mondo popolato da creature antropomorfe. Giudici scimmia, donne lumaca e medici gufi animano l’universo di Pinocchio, mescolando realtà e finzione.
Il cast c’è, come ci sono gli effetti speciali. Attenzione, però, a non confondere questi ultimi col trucco. Nel film è raro l’utilizzo del CGI e a mantenere vivo il realismo degli interpreti e delle loro espressioni, è l’eccezionale lavoro fatto sui personaggi, da quel Mark Coulier, autentico fenomeno del prostetico e già Premio Oscar per The Iron Lady e Grand Budapest Hotel.
Garrone combina con abilità l’aspetto sentimentale a quello favolistico della storia, dipingendo un racconto grottesco, a tratti cupo e dalle velate sfumature orrorifiche. Mai le precedenti versioni di Pinocchio, da quella disneyana a quella indimenticabile di Comencini, hanno raggiunto una dimensione altrettanto buia in alcuni frangenti. Il suo Pinocchio riprende le tinte e le atmosfere già mostrate ne Il racconto dei racconti e strizza l’occhio a Guillermo Del Toro, anch’esso grande appassionato del personaggio e che, proprio sul burattino più famoso del mondo incentrerà il suo prossimo film.
Pinocchio è storia d’avventura. Dove l’intrattenimento si fonde col dramma, lasciando spazio a una nemmeno troppo velata satira della società. È una parabola genitoriale: una storia d’amore tra un padre e un figlio, vicino ai quali si colloca una figura “materna” come quella della Fata Turchina. Non inganni, però, l’apparente semplicità di una storia ambientata in uno sperduto paesino toscano. Collodi era autore di una feroce satira politica e quello di Pinocchio è un mondo costellato di figure ambigue e amorali, che non esitano ad approfittarsi dell’ingenua buona fede del protagonista.
Allo stesso modo del naso che inizialmente cresce ad ogni bugia, facendolo sempre meno col passare del tempo, la menzogna viene “normalizzata” e diventa fase integrante di quel processo di umanizzazione che porterà il burattino a diventare un bambino vero. Certo, Pinocchio è pur sempre una favola. E se alla base di ogni favola c’è una morale, la spinta dell’autore ad intraprendere una via retta e responsabile, fa da contraltare alla minaccia sempre viva di finire confinati nel Paese dei Balocchi, uscendone solo sotto forma di ciuchini da circo.