“Rifkin’s Festival”: il cinema dentro il cinema di Woody Allen
Dopo “Vicky Cristina Barcelona” (2008) Woody Allen torna in Spagna a girare il suo ultimo film: “Rifkin’s Festival”. Una commedia leggera che, come “Un giorno di pioggia a New York” (2019), cavalca l’onda del “poco impegnativo” ma non senza tematiche di un certo spessore.
D’altronde quanto Woody Allen sia bravo a trattare tematiche profonde e filosofiche è ben noto. Il senso della vita, la morte e il vuoto cosmico che affligge l’essere umano sono presentati in chiave leggera e divertente, cosicché all’uscita dalla sala non ci senta Baudelaire durante la stesura dello “Spleen”.
L’ambientazione è ??? ????????́?, durante il Festival internazionale del cinema. Nella città basca si svolgono le vicende di una coppia alquanto bizzarra. Lui è Mort Rifkin (Wallace Shawn), il più classico degli alter ego di Allen: ipocondriaco, pedante e che trasforma ogni più banale conversazione in una ricerca sul senso della vita. Un acculturato ex insegnante di cinema innamorato della Nouvelle vague e del cinema europeo. Lei è Sue (Gina Gershon), agente pubblicitario incaricata di gestire le conferenze stampa di uno dei protagonisti indiscussi del festival: Philippe (Louis Garrel). L’affascinate regista francese è osannato da tutti per aver girato un film innovativo. Tutti tranne ovviamente Mort, che, semplicemente, lo reputa il solito banale regista che ha girato un film politicamente corretto per dare al pubblico ciò che vuole e si aspetta di vedere.
Da qui in “Rifkin’s Festival” viene ripercorso un po’ lo schema visto in “To Rome with love” (2012). La coppia per tutta la vacanza si separa e fa le proprie esperienze per poi ritrovarsi cambiata e con i propri scheletri nell’armadio.
Ma la caratteristica innovativa e parecchio interessante che percorre l’intera pellicola sono gli strani sogni che perseguitano il protagonista. Sogni in cui Mort si ritrova ad essere protagonista di film europee degli anni Cinquanta e Sessanta che più ama e che analizzava con tanta passione insieme ai suoi ex alunni. Si ritrova nella ricostruzione del capolavoro di Jean-Luc Godard “Fino all’ultimo respiro” (1960). In una cena sofisticata palesemente ispirata a quella de “L’angelo sterminatore” (1962) di Luis Buñuel, compresa l’impossibilità di uscire dalla porta finita la serata. Ci sono anche chiari riferimenti a “Persona” (1966) di Ingmar Bergman. Addirittura si ritroverà faccia a faccia con la morte, che in questo caso ha il volto di Christoph Waltz, durante una partita a scacchi, ad onorare il capolavoro del regista svedese Bergman “Il settimo sigillo” (1957).
RIFKIN’S FESTIVAL COME CRITICA DEL POLITICAMENTE CORRETTO
Il periodo di Allen e delle sue pellicole più impegnative in chiave dostoevskiano, come “Match Point” (2005) o “Sogni e delitti” (2007) è distante anni luce. Non sono più presenti quei personaggi così complessi che cercano di sopravvivere al castigo e ricercano un qualche tipo di redenzione. Ci sono personalità con una propria complessità e ben definiti in cerca di un senso, di un segno e di una qualche forma di sollievo in questa esistenza spesso vuota e ansiogena.
Insomma, le tematiche che da sempre gli sono care.“Rifkin’s Festival” è cinema nel cinema e Woody Allen onora le pellicole che a suo pensiero sono le portatrici della vera essenza della settima arte. L’ultima fatica del regista rappresenta una critica velata, ma sempre e comunque in chiave ironica, nei confronti del cinema contemporaneo, portatore di un esagerato ed esasperato politically correct. Che sia una sofisticata frecciata alle grandi distribuzioni americane che a quanto pare non accetteranno il suo nuovo film a causa dell’onda mediatica che ha travolto nuovamente il regista?