Recensione. “The Return – Il Ritorno”: l’Odissea interna di Ralph Fiennes e Juliette Binoche
Quasi sessant’anni dalla realizzazione della miniserie “Odissea“, il secondo poema di Omero torna sul grande schermo: il film “The Return – Il Ritorno” è stato presentato in anteprima alla Festa del Cinema di Roma.
In questa nuova affascinante lettura dell’Odissea, Uberto Pasolini riunisce Ralph Fiennes e Juliette Binoche, già protagonisti de “Il paziente inglese” (Minghella, 1996) per interpretare Odisseo* e Penelope. Al loro fianco, Claudio Santamaria (Eumeo), Charlie Plummer (Telemaco) e Angela Molina (la nutrice).
*Il regista non si definisce un grecista e dichiara di aver consultato diverse traduzioni anche attuali, ma per il suo protagonista lascia da parte il più diffuso nome latino Ulisse, scegliendo la versione greca Odìsseo.
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“Sono trent’anni che sto provando a fare questo film: ci ho messo di più io a fare un film che Odisseo a finire la guerra, dormire con tutte le donne più belle del Mediterraneo e finalmente tornare a Itaca!”
La versione realizzata da Uberto Pasolini è, più che una rivisitazione, una sorta di riduzione con qualche spostamento nell’ordine degli eventi: il film inizia con un uomo completamente nudo, ferito e incosciente che naufraga sulla spiaggia di un’isola. Presto scopriamo che si tratta di Odisseo, finalmente e fatalmente tornato sulla sua Itaca. “The Return – Il ritorno” non è dunque il racconto del viaggio, ma si concentra sull’arrivo a destinazione.
“La passione per l’Odissea” spiega il regista, “è una passione infantile ma più si invecchia e più la si legge, più ci si riconosce nelle emotività, nelle problematiche, nella psicologia delle persone. Io non li chiamo neanche ‘personaggi’: sono persone perché i miti hanno una vita (in questo caso millenaria), perché nei miti noi ci riconosciamo. E io mi riconosco non in un eroe, ma in un marito, in un padre fallito, nei difficili ritorni a casa – ho vissuto molto lontano dalla mia famiglia per lavoro.
Non abbiamo ripreso l’Omero studiato a scuola, così lontano da noi, ma l’Omero che parlava di cosa vuol dire essere umani, cosa vuol dire essere un figlio, un padre, un servitore, una madre, una moglie. Ciò che si vede nel film non è una nostra invenzione: ci siamo solo focalizzati di più sulle Odissee interne ai personaggi, anzi alle persone. Abbiamo tralasciato i personaggi che ricordiamo dalle nostre letture giovanili: non ci sono ciclopi, dèi e sirene, solo persone.“
Quindi, pur conservando alcuni dei momenti più iconici dell’epopea di Omero condensati nel tempo narrativo del film, quella di Uberto Pasolini è un’Odissea della mente, senza viaggi, senza mostri, senza dei. È il percorso di una famiglia che trova il modo di riunirsi contro gli ostacoli esterni ma, soprattutto, contro quelli del proprio cuore.
Per quanto sia fedele al testo, che in più punti è citato letteralmente, “The Return – Il ritorno” sembra infatti suggerire nuove chiavi di interpretazione delle pagine immortali di Omero: il ritorno non colma il vuoto lasciato da lunghi anni di assenza ma porta con sé i traumi e i conflitti di un passato lontano.
La storia è dunque quella nota: il grande merito di Uberto Pasolini e del suo cast internazionale sta nella capacità di sviscerare nuovi temi, così intimi e universali, certamente sempre attuali, grazie alla caratterizzazione dei personaggi.
L’Odisseo interpretato da Ralph Fiennes prende le distanze dal valoroso eroe dell’immaginario collettivo, così fiero, audace e furbo, talvolta beffardo, che fa dell’intelletto e dell’orgoglio la propria bandiera. Questo è un uomo stanco, esausto, affranto. In questo senso, il corpo di Odisseo basterebbe a raccontare una contro-storia. Emblematica la scena di nudo integrale: in un adattamento classico dell’Odissea ci saremmo aspettati di vedere il corpo dell’eroe così esposto in un modo trionfante – molto probabilmente in una scena erotica – mentre in “The Return – Il Ritorno“, appare così fragilmente scoperto, ferito e martoriato.
Questo Odisseo è un uomo consumato dal dolore della lontananza da casa per venti anni. Ralph Fiennes è a dir poco superbo nel mostrarcelo in una delle scene iniziali. Quando ha capito dove si trova e resta da solo, l’uomo – non il re, non l’eroe – si inginocchia, letteralmente si prostra alla sua isola. E non si limita a baciare la terra, la mangia. Non abbiamo visto la sofferenza di Odisseo nei precedenti venti anni, ma riusciamo a percepire tutto il dolore e la frustrazione nella tensione delle braccia di Ralph Fiennes nel toccare il suolo, tremando come se sollevasse il maggiore dei pesi.
Il peso che schiaccia Odisseo e gli impedisce di tornare trionfalmente a rimpadronirsi del proprio regno è quello del senso di colpa. Quando racconta le esperienze di guerra non nasconde il pentimento per aver ucciso “nemici” e per aver lasciato morire i compagni, semplicemente esseri umani. Lo sguardo vuoto del suo interprete rivela l’orrore visto e provocato sul campo di combattimento. L’Odisseo raccontato da Uberto Pasolini è a tutti gli effetti un veterano con la “sindrome del sopravvissuto”: afferma di non essere tornato subito dal suo popolo perché lo avrebbero odiato (per essere l’unico vivo) e da sua moglie perché non avrebbe potuto amare l’uomo che è diventato in guerra.
“Nella mia carriera” racconta il regista, “ho fatto e letto interviste a molti reduci del Vietnam: conosco la loro difficoltà nel gestire la violenza che avevano perpetrato e avevano visto in guerra, la loro difficoltà nel tornare in famiglia. Ho letto interi libri di interviste alle mogli dei veterani, che parlano delle difficoltà nell’accettare di nuovo questi mariti distrutti dall’esperienza della guerra. Mi hanno ispirato moltissimo e le ho inserite nei dialoghi, anche se la maggior parte del testo è quello omerico.”
La Penelope di Juliette Binoche – la cui grazia e espressività bucano lo schermo – è una regina prigioniera nel suo palazzo, una donna abbandonata da tutti e trattata come un trofeo, una fonte di guadagno che deve necessariamente essere posseduta da un uomo, una madre sola che fa di tutto per proteggere suo figlio, che invece le si rivolta contro dandole letteralmente della put***na. Ma soprattutto è una moglie divorata dal rancore misto all’amore per un uomo che ha fatto perdere ogni traccia di sé.
Penelope: Ma come fanno gli uomini a trovare la strada per la guerra e non quella per tornare a casa?
Odisseo: È che poi la guerra diventa la loro casa
Stanca di essere forte, devastata dal doversi continuamente difendere e consumata dall’essere l’unica a tenere accesa la luce della speranza, Penelope appare esteticamente come una Madonna addolorata. Particolarmente toccante il contrasto tra il delicato modo in cui disfa la sua tela, lasciando cadere i fili ad uno ad uno come fossero ciocche di capelli e la ferocia con cui la distrugge nel momento di maggiore sconforto e rabbia. Un sentimento represso così a lungo da trasformare i connotati di Juliette Binoche, che impressiona anche con un urlo animalesco quando vede suo figlio trasformarsi in un assassino.
La caratterizzazione del personaggio di Telemaco è perfettamente simboleggiata dalla fisicità di Charlie Plummer: il volto di un ragazzino coperto dalla barba di un uomo. Così appare il figlio di Penelope e Odisseo: un principe cresciuto nella bambagia, coccolato e protetto sotto una campana di vetro, che avrebbe l’età per prendere in mano la situazione ma si atteggia da adolescente indolente e strafottente con la madre, con i sudditi e con i Proci che vorrebbero liberarsene. Eppure Telemaco crea empatia nello spettatore, nel momento in cui esprime la sua dolorosa rabbia contro un padre da sempre assente, che ai suoi occhi ha preferito vivere altrove, e la delusione nel conoscere l’uomo dietro il mito, nella cui ombra è cresciuto.
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Particolare attenzione meritano altre due figure emblematiche, cui la versione di Uberto Pasolini, conferisce complessità e personalità.
Eumèo, l’allevatore di maiali che trova Odisseo naufragato a Itaca e lo accoglie a casa sua, è magistralmente interpretato da Claudio Santamaria. L’attore italiano – che vediamo maneggiare maialini come se lo facesse da una vita – svolge il prezioso ruolo di spalla del protagonista e lo rende particolarmente interessante grazie alla sua mimica: per la prima metà del film, spesso sembra che Eumeo sia consapevole dell’identità del naufrago mendicante, ma è altrettanto convincente nel suo doppio gioco. Eumeo simboleggia la povera gente di Itaca, “nave sanza nocchiero” da almeno vent’anni. Lui e i suoi compagni sono così visibilmente speranzosi ma stanchi, abbandonati a loro stessi e bloccati un regno in cui l’economia e il governo sono cristallizzati nell’attesa. Un popolo senza re, con una regina prigioniera nel suo palazzo e un principe inadatto, con cui però condividono la condizione di figli di uomini scomparsi nel nulla oltre venti anni prima per servire il proprio re.
Il popolo di Itaca è continuamente seviziato dai Proci che hanno invaso l’isola e, parafrasando il più giovane e odioso tra loro, “se non possono avere la Regina, almeno prenderanno tutto quello che possono“, facendo razzia di ogni tipo di merce e stuprando ogni donna dell’isola. Tra questi selvaggi arrivisti – tra cui alcuni estremamente giovani rispetto a Penelope – si distingue Antinoo, il “capo” dei Proci. Forse il personaggio più ambiguo: Marwan Kenzari inscena perfettamente il sottilissimo confine tra l’unico uomo davvero innamorato di Penelope, che ne conquista la fiducia con il rispetto e la delicatezza e che le sussurra nella penombra di voler tanto lasciare l’isola ma essere tormentato dal sentimento per lei, e il più subdolo manipolatore morbosamente attratto dalla regina, che vorrebbe liberarsi del figlio e la ricatta – la costringe a sposarlo per evitarle la violenza degli altri Proci, cui lui stesso denuncerebbe il segreto della tela.
Dunque, in “soli” 119 minuti, Uberto Pasolini ci restituisce una riflessione contemporanea su una storia di vecchia millenni, senza stravolgerla ma semplicemente approfondendola grazie alla cura nei dettagli.
In “The Return – Il Ritorno“, lo stile del peplum abbraccia l’attualità in un adattamento cinematografico affascinante e tecnicamente ineccepibile: mentre la fotografia di Marius Panduru ci regala panorami suggestivi e volutamente grezzi di una Itaca austera e desolata (le riprese esterne sono state fatte a Corfù), la macchina da presa sta agganciata ai volti dei due protagonisti. I loro sguardi e le loro parole così densi di pathos – enfatizzato dall’accompagnamento soave della colonna sonora di Rachel Portman – restituiscono il senso profondo di un mito intramontabile, ancora tutto da scoprire.
Dal 30 gennaio al cinema.
(Fonte foto: Festa del Cinema di Roma)