Recensione. Rosemary’s Baby: l’horror secondo Roman Polanski
Suspense e paura, angoscia e paranoia, tensione e sgomento sono alcune delle emozioni che si provano guardando “Rosemary’s Baby“, prodotto dalla William Castle Enterprises, capolavoro del regista polacco, naturalizzato francese, Roman Polanski. Uscito nel 1968, e forte di un immediato successo al botteghino con circa 30 milioni di dollari incassati in fronte ai poco più dei tre spesi, il film è una pietra miliare del genere, capace di influenzare qualsiasi pellicola similare uscita successivamente, complice la straordinaria prova corale del cast coinvolto e una straordinaria Mia Farrow in quella che, all’unanimità, viene riconosciuta come una delle migliori interpretazioni della sua carriera.
Lei che, al tempo, non vantava un palmarès così prestigioso ed era conosciuta, più che altro, per il suo breve matrimonio con Frank “The Voice” Sinatra. Magnifica la prova di Ruth Gordon nei panni di Minnie Castevet, ruolo che nel 1969 le valse l’Oscar e un Golden Globe come miglior attrice non protagonista. John Cassavetes, Sidney Blackmer, Maurice Evans, Ralph Bellamy e Angela Dorian gli altri attori coinvolti, ognuno di loro convincente e ben calato nella parte.
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Ispirato all’omonimo romanzo dello scrittore statunitense Ira Levin, racconta della giovane Rosemary e di suo marito Guy che si trasferiscono in un nuovo appartamento a New York nel quale, gli viene riferito dall’amico Hutch, sono avvenuti episodi di brutale violenza e riti satanici. Guy, attore che non riesce a esplodere il suo talento e la cui carriera stenta a decollare, stringe amicizia con i vicini, Minnie e Roman Castevet. Rosemary comincia a vivere sogni inquietanti e a percepire strane sensazioni. Dopo una cena insolita dai Castevet, nella quale si consumano circostanze controverse e ambigue, Rosemary scopre di essere incinta. Tuttavia, la sua gravidanza è tutt’altro che normale: soffre di dolori intensi all’addome e teme che il suo bambino sia in pericolo. Man mano che cresce la sua paranoia, si convince che suo marito e i vicini facciano parte di un culto satanico con piani sinistri per il suo piccolo, anche a seguito di un terrificante sogno che le si rivela essere premonitore.
Un horror psicologico disturbante e destabilizzante, dove lo spettatore fatica fino all’ultimo fotogramma a scindere realtà da allucinazione e suggestione da certezza. Una proiezione surreale del dramma umano che si consuma nell’arco temporale di centotrentasei minuti, cioè la durata del film. Una pellicola cupa e inquietante, al cui interno sono presenti tematiche come satanismo, esoterismo e violenza sessuale, per l’epoca scioccanti poiché trattati in maniera tanto sdoganata sul grande schermo. “L’esorcista“, considerato il film horror più spaventoso di sempre, uscirà cinque anni dopo. In “Rosemary’s Baby” l’inquietudine è una costante e l’angoscia che la protagonista assapora trasmette un senso di claustrofobia perdurante per tutta la visione dell’opera di Polanski. Non a caso le comunità cattoliche dell’epoca criticarono aspramente il film, tanto da boicottarlo fino a creare polemiche strumentali e di circostanza
Inganno e malignità, raggiro e manipolazione contraddistinguono l’azione e il pensiero del Demonio che, in uno scambio impari, fa valere la propria meschinità a discapito di una donna di belle speranze. Una storia soprannaturale e onirica connaturata da un’ambiente borghese, laddove si insinua l’ambizione che spesso sfocia nel compromesso a tutti i costi. Il regista, all’epoca trentacinquenne, confeziona un lavoro stratificato sul pensiero ideologico della trappola satanista e sul rituale del sacrificio umano grazie a una regia che non mostra mai del tutto ciò che accade, alimentando così la macabra curiosità della scoperta e della rivelazione. Polanski, che ha curato anche la sceneggiatura del film, si affida a una scrittura claustrofobica e ansiogena mirata a turbare lo spettatore lasciando che la sua mente viaggi e sviluppi da sé i possibili scenari.
Queste le parole della Farrow rilasciate a Marco Triolo di Film.it durante il festival di Locarno del 2014. “Non ero la prima scelta (con riferimento a lui affidatole, ndr). Lui (Roman Polanski, ndr) finge di non ricordarlo, forse perché anche lui non era la prima scelta come regista. Il libro era un best-seller enorme e il produttore William Castle, che di solito dirigeva B-movie horror, aveva pensato a un altro cast. Io sono stata scelta perché tutti gli altri attori lo avevano rifiutato. Il mio marito di allora lesse il copione e mi disse ‘Non ti ci vedo proprio’, e improvvisamente non mi ci vedevo neanch’io, perché quando sei tanto giovane sei insicura. La prima scelta per il ruolo era Jane Fonda, una scelta ovvia perché Rosemary doveva essere una ragazza ventisettenne proveniente dalle campagne di Omaha. Io a Omaha neanche c’ero mai stata e non avevo il fisico adatto a una gravidanza, che poi era il motivo per cui Rosemary viene scelta dai vicini. Jane Fonda era più tipicamente americana di me, ma non ha voluto. E credo che la prima scelta per il marito fosse Robert Redford. John Cassavetes è stato fantastico nel ruolo, ed è stato interessante vedere due registi di quel calibro discutere su come sviluppare una scena. Cassavetes da regista era molto libero, Roman invece è estremamente preciso, dunque inevitabilmente si sono scontrati”.
Ciò che la Farrow dichiarò corrispondeva al vero. Polanski non era considerato la prima scelta per la macchina da presa. Il primo a essere contattato fu Alfred Hitcock che però rifiutò. Non tutti i mali vengono per nuocere, visto il successo avuto dal film. A rimanere entusiasta fu anche Ira Levin che definì la pellicola un capolavoro e, soprattutto, “l’adattamento cinematografico più fedele mai realizzato a Hollywood“.