Recensione. “Pupi Avati. Tutto il suo cinema dagli esordi a L’orto americano”

“Io non ho mai fatto film per vincere premi. Ho sempre cercato di fare film per vincere le persone.” – Pupi Avati
Ci sono autori che fanno cinema per stupire, altri per scuotere, altri ancora per vincere. Poi c’è Pupi Avati, che ha sempre fatto cinema per raccontare. Raccontare l’Italia profonda, quella delle famiglie e dei cortili, dei sogni spezzati e delle tenerezze inattese. È questo il cuore pulsante del volume Pupi Avati. Tutto il suo cinema dagli esordi a L’orto americano (Historica Edizioni, 2025), firmato da Giuseppe Palma e Francesco Erriquez, con la prefazione dello stesso Avati. Un libro che non è soltanto un saggio, ma un atto d’amore nei confronti di uno dei registi più lirici e personali del nostro panorama cinematografico.
Il testo attraversa quasi sessant’anni di cinema avattiano, partendo dal 1968 e arrivando fino al 2025, con un’analisi rigorosa eppure emozionata di ogni singolo film. L’ultimo, L’orto americano, è stato presentato – significativamente fuori concorso – alla 81ª Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia il 7 settembre 2024, dove gli autori hanno incontrato nuovamente Avati dopo una lunga intervista avvenuta a Roma il 15 giugno dello stesso anno, nella casa del regista. È un’opera di chiusura che sembra quasi una carezza, un film che corona una carriera coerente, umana e profondamente radicata nei sentimenti.
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Palma ed Erriquez non si accontentano di offrire una carrellata di trame o un’antologia di curiosità: il loro approccio è analitico, affettuoso e penetrante. Ogni film viene esaminato nel dettaglio, con attenzione alla scrittura, alle scelte registiche, ai simbolismi ricorrenti, alle emozioni che si sprigionano tra le pieghe della narrazione. È anche per questo che Pupi Avati ha deciso di scrivere la prefazione del libro, chiudendola con parole che pesano come un riconoscimento autentico: “sia il mio cinema che la loro scrittura parlano la stessa lingua, ricorrono allo stesso lessico.” Una dichiarazione che suggella una consonanza di sguardi e sensibilità rara da trovare tra artista e critici.
Il volume dedica ampio spazio ai film più emblematici della carriera del regista bolognese: La mazurka del barone, della santa e del fico fiorone, Una gita scolastica, Storia di ragazzi e ragazze, Il cuore altrove, Il papà di Giovanna, Lei mi parla ancora. Ma anche Regalo di Natale, Il testimone dello sposo e Il figlio più piccolo, dove la malinconia e il dolore diventano trama e destino, senza mai cedere alla retorica.
Uno degli aspetti più affascinanti messi in luce da Palma ed Erriquez è il ruolo del regista nella costruzione delle performance attoriali. Nei film di Pupi Avati, non sono gli attori a elevare il valore del film, ma è il film stesso – la scrittura prima, la regia poi – a trasformare le interpretazioni in qualcosa di memorabile. Non a caso, sia Carlo Delle Piane che Silvio Orlando vincono la Coppa Volpi a Venezia – nel 1986 e nel 2008 – grazie a due ruoli nati dall’immaginario e dalla penna di Avati.
Ma il regista non si limita a valorizzare i grandi interpreti: li scopre, li riscopre, li reinventa. Fa recitare comici in ruoli drammatici con risultati sorprendentemente profondi – da Massimo Boldi in Festival a Ezio Greggio ne Il papà di Giovanna, fino a Cristian De Sica ne Il figlio più piccolo. E poi, c’è il suo talento tutto speciale nel riportare in scena attori dimenticati o relegati a ruoli marginali, come Carlo Delle Piane o Diego Abatantuono, restituendo loro dignità artistica e spazio emotivo.
Il libro restituisce anche la coerenza stilistica e tematica di un autore che non ha mai inseguito le mode, ma ha preferito scavare nelle radici della sua memoria e del suo Paese. C’è nei film di Avati un’Italia che scompare, un’Italia sospesa tra nostalgia e rimpianto, in cui il tempo è spesso protagonista invisibile, e dove la gentilezza diventa rivoluzionaria.
Eppure, nonostante l’originalità dello sguardo, l’umanità del tratto e la solidità della sua poetica, Pupi Avati non ha mai vinto un premio come miglior regista in un grande festival internazionale. Un’assenza che lascia l’amaro in bocca ma che, a ben vedere, non sorprende. Il cinema dei grandi festival spesso predilige la sperimentazione spinta, il linguaggio visivo esasperato, l’urgenza sociale o politica. Avati, al contrario, ha fatto della delicatezza il suo stile, della narrazione lineare la sua forza, della semplicità una forma di resistenza.
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Il suo cinema non urla, ma sussurra. Non si impone, ma accompagna. E forse è proprio per questo che, pur essendo amato dal pubblico, rispettato dagli attori e celebrato dagli studiosi, non è mai stato “di tendenza”. Ma è sempre stato profondamente autentico. E in un’epoca in cui tutto cambia con rapidità vertiginosa, la coerenza di Pupi Avati è forse il premio più grande che un autore possa concedersi.
Articolo di Carlo Di Stanislao