Recensione. “Parthenope” è un film che ti permette di perderti
E finalmente siamo riusciti a vedere “Parthenope” del Maestro Sorrentino!
Avendo, come sempre per i suoi film, evitato accuratamente spoiler o di leggere recensioni, mi sono -direi altrettanto come sempre perché, sì, sono assolutamente di parte e lo adoro senza riserve- goduto queste splendide, abbondanti due ore.
Immagino quanti, come al solito, lo abbiano tacciato di “disutilità” e “areiforme prosa cinematografica”. Una libidine assoluta queste critiche, per me! Direi invece che la pellicola è l’ennesima conferma di uno stile, non già di una maniera o, peggio, di un manierismo, che mi esalta fino ai più remoti precordi.
Una forma lavorata iconograficamente fino al massimo delle sue possibilità in almeno un centinaio di inquadrature, atteso che l’intero continuum visivo, se lo vogliamo definire così, dona fremiti e palpitazioni incontrollabili. Quella macchina da presa sempre più “pennello” che fa quello che gli pare, che suggestiona sempre come vuole… uh, che brividi! È davvero una roba bella da seguire con gli occhi e con la mente, sempre, dall’inizio alla fine.
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Poi la questione – delicata in questo periodo in cui si impetrano chissà quali onusti impegni agli artisti – dei famigerati contenuti: sì, lo ammetto, per un decadente doc, per un maceratore emotivo di impulsi esterni, Sorrentino è come il primo ovetto Kinder regalato a un pupetto. Ci sguazzi dentro a volte quasi commosso! Per lui non è mai (ma lo è mai stata?) questione di acchiappare lo Zeitgeist, il Götterdammerung e tutte quelle belle parolone tedesche importanti.
Credo che amarlo e schierarsi come suo fedelissimo ammiratore richieda una sorta di predisposizione, o tara, sopraggiunta al momento giusto della propria vicenda terrena. Diciamo che questo “Parthenope” è un po’ una riflessione sul tempo che passa, sull’amore che brucia e poi non brucia più, sul concetto di perdersi e di perdere. Ma senza l’ossessione, a volte parossistica nel cinema (e anche nel teatro, a suo diverso modo), di fornire allo spettatore il gran messaggio o un qualche definitivo “gestus“.
No, proprio per niente, perché alla fine sono cose normali, delle quali si parla e si ragiona sempre, sia che tu sia una mente eccelsa, sia che tu sia un non troppo intelligente (come me, del resto). Del regista napoletano mi piace il fatto che ti lascia libero di perderti, che punta alla suggestione senza ammantarsi di qualche sgargiante vestigia professorale ex machina (da presa).
Capisci, non capisci, è, potrebbe essere? Sta a te seguire la linea, anzi, l’impulso che preferisci. Per me questo equivale, se non a un manifesto programmatico, quantomeno ad una specie di ideologia della libertà e della Differenza di cui, oggi più di ieri, se ne sente un gran bisogno.
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E che dire della impressionante quantità di maschere, umane ma anche non proprio, che ha messo in campo (e in controcampo, verrebbe da dire), stavolta? Una meraviglia, con singole prove molto accattivanti, anche quando sono state disegnate con poche scene o, meglio, con una singola scena o un singolo fotogramma. Nel film recitano tanti attori che ho visto a teatro (la vera Prova) o che ho intervistato. E li ho apprezzati quasi tutti. Isabella Ferrari, Silvio Orlando, la stessa Sandrelli, Elena Gigliotti: tutte belle parti. Un discorso a parte meritano poi l’immenso Gary Oldman nei panni di John Cheever e l’atomico Peppe Lanzetta (spero che gli diano qualche premio, è grandioso qui). Anche la protagonista, la bellissima Delle Piane, mi è piaciuta assai. Va bene la malia estetica cui può sottoporre grazie alla dotazione estetica e di fascino regalatagli dai suoi genitori, ma a me è parso che regga bene per tutta la durata anche a prescindere.
D’altronde, quando a guidarti è una “mano de dios” come quella del nostro, ci si deve trovare piuttosto a proprio agio a seguire certe “guide“. E a proposito, infine, di “maradonismi“: è bello sapere che un grande artista, un artista mondiale e come tale riconosciuto, dia una così grande importanza all’ipnosi che il Pallone sa regalare, a prescindere dal censo di appartenenza. Certo, a Napoli e parlando di Napoli, le cose sono più facili da raccontare con un Pallone “tra le palle”, però fa tanto piacere sapere che qualcuno lo faccia senza timore e gli restituisca una sua certa dignità di Sublime Emozionatore Collettivo.
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Insomma, veramente una bella conferma, anzi, mi spingo a dire che questo film, almeno al momento, si colloca sul mio personale podio sorrentiniano. Non è “La grande bellezza” (anche se è quello che per assunti formali e non solo più gli è apparentato), non è “Le conseguenze dell’amore“, ma è meritevolissimo e ho già voglia di rivederlo.
Se potete, andate. Chissà quanto lo terranno in cartellone. Mi pare di capire che sono tempi sempre più duri per il Cinema, inteso come luogo dove bisogna uscire e andarci per vedere qualcosa. Se vi aiuta, poi, sappiate che della dozzina di spettatori presenti, due sono andati via prima della fine del primo tempo e altri due hanno abbandonato la proiezione prima della conclusione. Nel novantacinque per cento dei casi, questo è un ottimo segnale!
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