Recensione “McVeigh”: la storia dell’attentato di Oklahoma City, ma senza spiegazioni
Nella sezione Freestyle della Festa del Cinema di Roma è stato presentato “McVeigh“, il film di Mike Ott sull’autore della strage di Oklahoma City.
Prima dell’11 settembre, era considerato il più sanguinoso degli atti di terrorismo negli Stati Uniti. Tuttora è l’attentato interno con il più alto numero di vittime: 168 morti e oltre 600 feriti.
Era il 19 aprile 1995, alle 9 del mattino, quando un furgone carico di esplosivo parcheggiato davanti all’Alfred P. Murrah Federal Building di Oklahoma City saltò in aria. Un’ora e mezzo dopo venne fermato
Timothy McVeigh, ventisettenne sottufficiale reduce dalla Guerra del Golfo, con simpatie suprematiste, voglia di armi, di violenza, di vendicare i martiri di Waco.
Leggi anche: Recensione. “The Return – Il Ritorno”: l’Odissea interna di Ralph Fiennes e Juliette Binoche
Mike Ott (regista di “Littlerock“, “California Dreams“, “Actor Martinez“), ricostruisce l’ideazione e la
pianificazione dell’attentato in un film teso come un thriller e disturbante come un documentario, sempre estremamente attuale.
In “McVeigh” l’attentato viene mostrato solo attraverso rapidissime immagini di repertorio durante i titoli di coda: come suggerisce il titolo, il film si concentra sull’autore della strage. Ma lo fa in un modo diverso da quello che ci si potrebbe aspettare.
Sin dalle prime inquadrature, in cui la camera segue un’auto come dall’altezza di un camion, sta addosso al protagonista, ma non riesce a mostrare il processo di radicalizzazione che porta un giovane veterano a ordire un simile piano. Non ci fa vedere le cause del suo odio, lo sviluppo dei suoi sentimenti di odio e tanto meno la progettazione del grande attentato.
La prima volta che vediamo Tim McVeigh, interpretato da Alfie Allen (John Wick, Il trono di spade), è di spalle alla guida di un auto, quando viene fermato dalla polizia per eccesso di velocità e continua a fissare il vano portaoggetti. Alla fine del film non sappiamo nient’altro su di lui: un personaggio assolutamente piatto di cui il regista non ci dà nessun particolare. Chi non conoscesse la sua storia, potrebbe appena intuire che si tratti di un veterano o di un giovane di soli 27 anni (rispetto ai 38 dell’attore), o ancora potrebbe percepire il suo odio contro le istituzioni quando punta una pistola contro la tv mentre ascolta una donna parlare di strage di bambini.
Cosa pensa in realtà Tim? Come nasce il suo odio antigovernativo? Chi è Tim? Non ci è dato saperlo. Il protagonista è dimesso, silenzioso, inquietante, con momenti privati che ricordano quelli di Travis Bickle in “Taxi Driver“. Lo vediamo esclusivamente “lavorare” in una sorta di mercato coperto in cui si vendono armi, tornare in una casa impersonale quanto il protagonista e nascondere i soldi nelle scatole della cucina, come ogni americano-in-un-film che si rispetti.
Tim McVeigh entra in relazione con altri personaggi, ambigui – in quanto sconosciuti – almeno quanto lui. Primo fra tutti l'”amico” Terry (Brett Gelman), un uomo che pagando 5000 dollari su un’app ha ottenuto una moglie filippina che cucina per lui ed è “comoda” perché, non padroneggiando ancora bene la lingua, non parla troppo. Lo vediamo preparare esplosivi e ridere davanti al buona riuscita di un test, ma tentare di dissuadere Tim dal fare un attentato di tali proporzioni.
Leggi anche: Recensione. “Leggere Lolita a Tehran” è un film che fa necessariamente male
O ancora, all’inizio del film, McVeigh si reca in un carcere per parlare con Richard Wayne Snell (Tracy Letts) e dire di star “seguendo la questione di Waco“. Una scena emblematica di come allo spettatore sia richiesto un continuo lavoro per “unire i punti”, per cercare di stare al passo con un film che dà molto per scontato.
In seguito scopriamo che Richard, con cui Tim sembra essere da tanto in confidenza, è un noto suprematista bianco americano che tra il 1983 e il 1984 ha ucciso due persone, un agente di polizia nero e il proprietario di un banco dei pegni che aveva scambiato per un ebreo. Per questo è condannato alla pena di morte, che verrà eseguita “proprio il 19 aprile, a due anni da quel giorno“.
Richard sostiene che non sia un caso il fatto che sia stato scelto l’anniversario dell’ultimo giorno dell’assedio di Waco, in cui l’operazione dell‘Fbi e dell’unità antiterroristica Delta Force nata con lo scopo di arrestare David Koresh, capo della setta religiosa dei davidiani, ha causato la morte di ben 82 persone, tra cui diversi bambini.
Proprio il criminale suprematista, che McVeigh sembra ascoltare come un mentore, inizia a suggerirgli l’idea di far qualcosa di significativo nel giorno della propria esecuzione. Nessuno parla chiaramente del piano, come se l’intero film potesse essere intercettato dalle forze dell’ordine.
Un altro ambiguo personaggio incita continuamente il protagonista all’azione: Frederic (Anthony Carrigan) si avvicina al banco di armi di McVeigh ripetendo una citazione:
“Il giorno in cui il governo americano metterà fuori legge l’uso della armi, diventerò un fuorilegge”
L’uomo, fortemente devoto alla causa, dice di essere un vecchio amico di Richard e vuole convincere e il protagonista ad entrare nella comunità di Elohim.
Risulta molto difficile comprendere anche il personaggio della romantica cameriera Cindy (Ashley Benson), che appare molto dolce per quanto attratta da Tim all’interno di un poligono di tiro. Tra i due nasce una sorta di relazione: vediamo il protagonista comprarle dei fiori e recarsi continuamente sul parcheggio del locale in cui lavora e li vediamo avere rapporti, ma il dialogo tra i due è appena esistente.
I personaggi di “McVeigh” vengono spessi ripresi attraverso il vetro di una finestra o di uno specchio: sono personaggi a tutti gli effetti impenetrabili, di cui non possiamo catturare l’essenza in profondità, ma solo la superficie o il loro riflesso. Il film non esprime giudizi, non si sbilancia, non approfondisce. Non ci mostra, come spesso accade, i criminali come villain assoluti, ma neanche come persone traumatizzate che scatena l’ondata di odio. Semplicemente non si pone domande.
Spesso il lavoro di collegamento dello spettatore è reso completamente inutile: in sala aleggia la frustrazione per i tanti “non detto” di questo film. Non solo non ci vengono fornite molte informazioni e non vengono date risposte alla curiosità, ma altri dettagli sono volutamente nascosti. Ad esempio, spesso vediamo il protagonista discutere al telefono pubblico, ma non sappiamo quasi mai cosa dice o con chi parli. Anzi, spesso la camera si trova dall’altro lato della strada e la sua visuale è disturbata dal passaggio delle macchine.
O ancora: nella scena finale, nel momento in cui McVeigh si reca verso il luogo dell’attentato, fa salire qualcuno sul suo camion, che siede al posto del passeggero. Ma quest’ultimo personaggio non viene mostrato o tantomeno nominato. Al punto che viene spontaneo chiedersi perché il regista abbia aggiunto questo dettaglio, senza fornirne la minima spiegazione.
Novanta minuti potrebbero sembrare pochi, eppure davanti a “McVeigh” scorrono a fatica. Soprattutto se il film in questione è quasi totalmente privo di colonna sonora: su tutta la proiezione regna il silenzio, o il sottofondo della pioggia, del ronzio del neon, delle auto che passano. Un silenzio che però ancora più forte il suono dei colpi di pistola quando Tim si esercita al poligono di tiro. Un sussulto in sala che fa appena immaginare quale potesse essere l’impatto di uno dei più grandi attentati nella storia degli Stati Uniti.
(Fonte foto: Festa del Cinema di Roma)