Recensione. “Leggere Lolita a Tehran” è un film che fa necessariamente male
Tra i film in concorso alla diciannovesima edizione della Festa del Cinema di Roma, spicca un titolo molto atteso: “Reading Lolita in Tehran – Leggere Lolita a Tehran“, l’adattamento cinematografico del romanzo di Azar Nafisi, diretto dal regista israeliano Eran Riklis.
Sono passati esattamente venti anni da quando “Leggere Lolita a Teheran” (uscito negli Stati Uniti un anno prima, nel 2003) è arrivato sugli scaffali delle librerie italiane. Il romanzo autobiografico dell’insegnante di letteratura americana Azar Nafisi è stato un grande successo di pubblico e un caso editoriale degno di nota: è rimasto nella lista dei bestseller del New York Times per 117 settimane e è stato tradotto in 32 lingue.
Il romanzo racconta di un semplice diritto e passione che diventa un atto rivoluzionario: per conquistare critica e pubblico, alla Nafisi è bastato scrivere una storia vera – la sua – che, decontestualizzata, potrebbe sembrare quasi scontata. Per rendersi conto del potere di questo libro, basti pensare che l’autrice è stata costretta a rielaborare e rimescolare nomi e storie in modo da rendere impossibile il riconoscimento delle persone reali dietro i personaggi, la cui sopravvivenza in Iran sarebbe stata messa a rischio.
Sembrerebbe un discorso attuale, invece le scelte editoriali della Nafisi risalgono ai primi anni del Duemila. Perché l’incubo che tenta di annullare la vita delle donne iraniane – che negli anni Cinquanta e Sessanta erano libere di indossare minigonne e semplicemente godersi un caffè fuori dalle università – è iniziato già quasi quattro decenni fa. Azar Nafisi lo raccontava al mondo già nel 2003, ma spesso in Europa questa narrazione ha destato poco interesse. Solo la morte di Masha Amini, arrestata e uccisa per non aver correttamente indossato l’hijab ha acceso un’attenzione diversa.
“Leggere Lolita a Tehran”: un film non così politico
L’adattamento cinematografico di questa difficile storia è stato affidato a Eran Riklis, mentre la produzione è italo-israeliana. Nella conferenza stampa alla Festa del Cinema di Roma, il regista ha preferito non svelare dove siano state effettuate le riprese in Italia. Ma noi l’avevamo colto in flagrante, quando durante le vacanze pasquali aveva trasformato l’edificio di Lettere e Filosofia dell’Università La Sapienza nel set di “Leggere Lolita in Tehran”.
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Per questo film, che uscirà nelle sale italiane il prossimo 21 novembre, c’erano alte aspettative e molti dubbi. Rimarrà forse un po’ deluso chi si aspettava un film fortemente politico, vista la provenienza del regista. Perché in questo caso così delicato, Riklis si è fatto piccolo piccolo per lasciare che le parole di Azar Nafisi – anche sceneggiatrice del film – potessero esprimere tutta la propria potenza, offrendo uno spaccato crudo, intimo e terrificante sulla condizione femminile in Iran.
La trasformazione del libro in un film di 107 minuti è stata dunque affidata soprattutto all’autrice e vera protagonista delle vicende: Nafisi taglia, cuce e revisiona ogni scena in modo che la politica non sia l’effettiva protagonista. Al centro di tutto, non c’è il regime ma la condizione umana, non l’ideologia ma i personaggi, che bucano lo schermo in qualità di esseri umani prima di tutto e mai meri strumenti narrativi.
La fedeltà al romanzo
Il prodotto finale è molto fedele alla versione cartacea, di cui mantiene la suddivisione in quattro parti, ognuna delle quali porta il nome di un libro: “Il Grande Gatsby“, “Lolita“, “Daisy Miller“, “Orgoglio e Pregiudizio“.
Si tratta di alcuni dei romanzi preferiti della protagonista, la docente di letteratura americana Azar Nafisi, che nel 1979, concluso il dottorato in Oklahoma, torna insieme al marito nella sua Tehran, per insegnare nell’università della capitale iraniana.
Azar – interpretata da una magnetica Golshifteh Farahani – è una trentenne (sul suo passaporto leggiamo che è nata nel 1948 a Tehran) appassionata, determinata e carismatica. Lo dimostra la fervida partecipazione ai suoi corsi, nonostante qualche studente estremista provi ancora a ribadire che chi evade la legge islamica scrivendo libri adulteri andrebbe ugualmente punito. Ma la Nafisi inscena un processo al libro: il suo atteggiamento fiero e solleticato dall’istinto di ribellarsi emana speranza. Un sentimento alimentato dalle manifestazione studentesche: nel 1979 è appena iniziata la rivoluzione islamista guidata dall’ayatollah Khomeyni, ma la voglia di alzare la testa è ancora così tanta.
Qualcosa inizia drasticamente a cambiare quando le studentesse che la professoressa guarda con orgoglio manifestare vengono picchiate e arrestate dalle forze dell’ordine. In carcere vengono terrorizzate, stuprate, chiamate a gruppi di tre per poi giustiziarne ogni volta “solo” due.
Eppure la Nafisi risponde ancora a testa alta a chi le chiede di inserire nel programma universitario autori più moralmente accettabili e si ribella all’obbligo di indossare l’hijab nei luoghi pubblici per tutte le donne dai nove anni in su, appena approvato dalla legge.
Presto è però costretta ad interrompere il suo corso di letteratura occidentale presso l’università di Teheran a causa delle continue pressioni sui contenuti delle lezioni ed in generale sulla sua vita di donna – pressioni ancora più difficili da concepire per lo spettatore, quando a maltrattarla fisicamente e giudicarla durante una perquisizione è proprio una donna.
Tuttavia, sostenuta dal marito e da un collega – che ha perso la cattedra e condivide con lei una sana amicizia e la passione per i libri occidentali-, Azar non lascia totalmente l’insegnamento: ogni giovedì mattina, a casa sua, organizza segretissimi seminari di letteratura americana per le sette migliori studentesse del suo corso: Manna, Nassrin, Mahshid, Yassi, Azin, Mitra e Sanaz. Giovani donne che, una volta varcata la soglia di casa e entrate in un posto “sicuro”, si liberano del nero velo che le nasconde e le cancella sempre più, per essere completamente se stesse. Come in una bolla di sapone, purtroppo non abbastanza grande da proteggerle dai soprusi, dai mariti violenti, dagli arresti infondati, dalle ispezioni ginecologiche, dalle torture e dalle frustate in carcere.
Eppure durante il seminario il resto del mondo fuori e si discute di letteratura, in particolare di grandi romanzi come “Lolita“, “Il grande Gatsby“, “Orgoglio e pregiudizio“, “Cime tempestose“, “Daisy Miller” e “Piazza Washington” di Henry James, ma anche “Invito a una decapitazione“, “Le mille e una notte” e altri. Tutti vengono analizzati alla luce delle esperienze che le ragazze e la professoressa vivono nella repubblica iraniana. Mentre la loro terra diventa sempre più cupo e opprimente, queste giovani donne hanno finalmente un luogo dove sentirsi al sicuro, dove poter esprimere le proprie opinioni, coltivare le proprie passioni. Perché la letteratura è per loro una finestra sul mondo, una scelta di libertà, un segreto che appartiene solo a loro in un mondo di continue ispezioni e controlli, in cui i piccoli piaceri della vita vengono loro negati con violenza.
Tra le pagine viene però inevitabilmente fuori la vita privata delle ragazze, che si intrecciano a quelle della loro professoressa. Con il passare del tempo, durante il seminario, le studentesse fraternizzano, affermano la propria identità anche grazie al diritto di leggere e conoscere, e cominciano a raccontare le loro vite private. Ognuna di esse, a modo suo, rappresenta le difficoltà di essere donna nella società iraniana e viene guidata dalla Nafisi per trovare la forza di resistere, conservando la determinazione e il diritto a desiderare una vita migliore.
Ad un pubblico occidentale, la figura di Azar Nafisi potrebbe ricordare la professoressa di storia dell’arte interpretata da Julia Roberts in “Mona Lisa Smile“ (2003). Ma in questo caso il contesto è così brutalmente reale e spaventosamente attuale da far sparire tutto il romanticismo.
I salti temporali permettono allo spettatore di percepire il progressivo scivolamento nel buio: da un primo momento di resistenza e di opposizione, in cui ancora una speranza si univa al cambiamento, si passa negli anni successivi a percepire negli sguardi e nella città che cambia silenziosamente sullo sfondo, la spaventata rassegnazione, la sensazione di tradimento e disincanto, mentre il fanatismo religioso travolge ogni minimo aspetto del quotidiano e conduce sempre più giovani a credere fermamente nel martirio.
Le scene di “Leggere Lolita in Tehran” si caratterizzano per una dolorosa escalation di violenza: dalle torture in carcere fino allo studente che si dà fuoco, ma mostra anche e soprattutto una violenza sempre più subdola ai danni di una popolazione divisa e confusa.
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Eppure la violenza delle forze dell’ordine non è ciò che spaventa di più: la privazione della libertà fisica delle donne, della libertà intellettuale dei giovani è così concreta da far paura. Perché effettivamente funziona: il film ci mostra come l’obiettivo della cancellazione dell’identità, l’annichilimento della personalità e del pensiero è così facilmente raggiungibile.
Facciamo fatica a metterci davvero al posto delle protagoniste di questa storia – simbolo di chi vive la Storia con la s maiuscola – ma il film è talmente realistico e crudo, intimo e terrificante che allo spettatore sembra di ricevere continui pugni nello stomaco. E di riuscire a percepire fisicamente il terrore e la stanchezza di Azar, di una donna che vuole lottare ma a cui non è rimasto più nulla in cui credere, terrorizzata da quello che sarà il proprio futuro e quello dei suoi due figli. Chi guarda davvero il film, riesce a sentire sulla propria pelle l’usura causata dagli incubi che la fanno sussultare ogni maledetta notte nell’arco di dieci anni e l’esaurimento psicologico, nervoso e fisico di Azar nel rendersi conto di essere stata privata di tutto, del sentirsi trasparente. Come se effettivamente la stessero pian piano cancellando.
Sì, “Leggere Lolita in Tehran” è un film che fa male. Eppure un film così necessario, perché a ferire non è niente di inventato, ma la cruda verità sbattuta in faccia. Forse è proprio questo l’aspetto più inquietante: l’Iran descritto dal libro del 2003 in realtà appare molto più reale, vicino e sentito di quel che avremmo pensato.
“Avresti mai pensato sarebbe capitato a noi?”
Quando la protagonista pronuncia queste parole, tutto il resto svanisce. Le speranze e i sogni, gli ideali e il coraggio, persino il bisogno di difendere il proprio diritto alla libertà culturale e di pensiero. Poche parole che vibrano e colpiscono senza pietà, una frase estremamente significativa perché concretizza quella paura talmente interiorizzata da non avere il coraggio di ascoltarla: la privazione della libertà che comincia subdolamente con qualche piccola imposizione e clausola nelle leggi, per poi portare alla totale cancellazione dell’identità in un così breve tempo.
“I grandi romanzi devono mettere a disagio“
dice Azar Nafisi ai suoi studenti. Se il discorso è applicabile anche al mondo cinematografico, non abbiamo timore di affermare che “Leggere Lolita in Tehran” è un grande film.
(Fonte foto: Festa del Cinema di Roma)