[Recensione] “La pazza della porta accanto” sono io, Alda Merini tra poesia e follia
Nascere il primo giorno di primavera ed essere perseguitata da un destino di continua metamorfosi in anime sempre diverse, mantenendo sempre lo spirito combattivo di una donna ardente di poesia e di emancipazione. Alda Merini, figura poliedrica, complicata, fragile ma mai debole, ha segnato per sempre il panorama della letteratura italiana.
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La sua penna è una costante spina nel fianco per una società, quella del secolo scorso, ispida, contraddittoria e pregiudizievole. La vita della scrittrice è un sentiero infernale infestato da violente incomprensioni. I ricoveri in manicomio e il vano tentativo di imprigionare una mente libera e tormentata, sono solo alcuni episodi da inserire nel pantheon dell’esistenza della poetessa.
Classe 1931, Alda si ritrova ad affrontare una guerra, la povertà, la violenza domestica e una diagnosi di disturbo bipolare e schizofrenia. Definisce la sé bambina molto sensibile, malinconica e solitaria. Il gioco del destino ha voluto che non superasse la prova di italiano per l’ammissione al Liceo Classico Manzoni di Milano. Proprio lei, che con le sue parole ha costruito un mito letterario contemporaneo. A 15 anni un colosso della critica letteraria come Spagnoletti recensisce una sua poesia lasciandole un entusiasmo ben presto rotto dalla serietà concreta del padre: la poesia non dà il pane.
Il primo ricovero in manicomio si fa risalire ai suoi 17 anni. Da ciascun dramma riesce a far fiorire poesia; una poesia che spoglia il lettore con un ardore a tratti rabbioso, lasciandolo infreddolito nell’inverno generato dalla potenza delle lettere. Nonostante gli elettroshock, la disumanizzazione perpetrata nei diversi episodi di internamento e lo stupro della dignità, anche femminile, la Merini non rimane immobile nella nebbia ma continua a farsi spazio con la sua scrittura.
Il testo che più indaga sul ruolo di donna e poetessa con una modalità riconducibile al monologo è “La pazza della porta accanto” edito da Bompiani nel 1955. L’opera si alterna tra prosa e poesia, a volte fa pensare ad una pagina di diario che si ha quasi vergogna a leggere per non violare l’intimità dell’autrice. È proprio per questo che la scintilla dell’empatia scatta fin dalle prime righe. La connessione con la scrittrice si innesca in pochi minuti di lettura e non molla mai la presa. Ci si lascia trasportare dal flusso degli eventi e si viene inghiottiti con estrema facilità, senza difesa alcuna. La sua è una poesia senza maschere, fisica. Si riscontra una carnalità che in quegli anni si rivela essere quasi demoniaca, folle.
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Alda non ha mai taciuto l’aspetto sessuale della sua vita, raccontandone ogni aspetto e diventato foriero di un femminismo poetico italiano apprezzato solo a partire dagli anni ’90. “La pazza della porta accanto” è un intenso viaggio nei meandri delle reminiscenze dell’autrice. Non c’è ordine, solo ricordi che straripano al momento giusto e inondano i campi aridi della superficialità. Vi è un illusorio tentativo di ordine nella divisione in quattro sezioni dell’opera. La vera sequenzialità viene, invece, compresa a fine lettura.
Come? Ognuno fa del susseguirsi delle continue epifanie un senso logico. Tasto dolente per il lettore, ma non molto per Alda Merini è l’amore. Da subito si capisce quanto abbia amato ancor più di essere stata amata. Nelle pagine esplora vari tipi di amore, con il barbone Titano, con il prete, con un poeta, con i suoi due mariti Pierri e Carniti. L’amore le dona, la fa volare, la fa sentire viva, ma deve sempre fare i conti con il giudizio della sua condizione psichica e i continui ricoveri. Il manicomio le toglie i sentimenti, la aliena, le imprigiona i pensieri a tal punto da non farle più distinguere quale fosse la vera prigione, se la struttura o la poesia stessa.
Un argomento molto caldo nella società odierna e toccato profeticamente dalla scrittrice è il rapporto madre-figlia per poi sfociare in quello tra la donna e il proprio corpo. Alda vive costantemente privata dall’affetto dei figli, strappatile per cause ormai adducibili. Non è mai riuscita a risanare il vuoto causato da quell’amore non esperito e da tutte le volte in cui altri hanno deciso per lei, tra adozioni e aborti coatti.
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Quando si pensa ai poeti, agli scrittori, si fa fatica ad immaginarli in carne ed ossa e con una vita fatta di umana sofferenza. È come se si immaginassero in una campana di vetro in preda ai propri pensieri e travolti dal solo estro artistico. Gli scrittori come Alda Merini trasformano l’invisibile in visibile e l’intangibile in concreto; vivono senza maschere e si immolano per dar voce a tutte quelle maschere, tutte uguali, che calpestano il loro stesso universo e danno voce anche alle loro emozioni senza che questi se ne rendano conto.
Non è un sortilegio il poeta, è una fata che vuole che il suo Pinocchio diventi carne. Ma intanto è la fata a morire, a trovare una tomba in un difficile camposanto, a respirare aria di terra, a diventare limone. Mentre lui, il burattino, gioca, gioca e si infiamma e diventa solo legna da ardere. Il dolore che si prova leggendo questo libro è indescrivibile, si entra umilmente e in punta di piedi in una storia vera che graffia il cuore e picchia l’anima lasciando lividi in eterno. Si potrebbe definire l’opera più sofferta della Merini, un fresco sollievo dalle altissime fiamme dell’ade agonizzante dei suoi pensieri, così fitti e veri da far
paura. Un balsamo momentaneo per l’anima.