Recensione. “Giurato numero 2”: in Clint we trust
Emozionante. Solo così verrebbe da descrivere la visione di “Giurato numero 2“, ultimo film di Clint Eastwood. E non solo per l’età anagrafica di uno degli ultimi grandi maestri del classic movie americano che – siamo sinceri – mette una certa soggezione, oltre a suscitare una profonda ammirazione per un gigante del cinema che vorremmo vivesse in eterno, ma anche e soprattutto perché i temi trattati al suo interno sono profondamente radicati nella società civile al punto da impattare fortemente sull’opinione pubblica.
CONTIENE SPOILER
Siamo di fronte a un legal thriller che narra la storia di un futuro padre di famiglia, Justin Kemp, che viene chiamato a far parte della giuria in un processo molto mediaticizzato che, inaspettatamente, lo coinvolge. L’imputato è accusato di aver investito una persona senza prestare soccorso ma il giurato si rende ben presto conto di essere corresponsabile della morte della vittima e, naturalmente, deve decidere se salvarsi oppure dire la verità. Il cast è composto anche da Nicholas Hoult, Toni Collette, J.K. Simmons, Chris Messina, Gabriel Basso, Zoey Deutch, Cedric Yarbrough, Leslie Bibb e Kiefer Sutherland.
CONTIENE SPOILER
In “Giurato numero 2” il regista ci mette di fronte al conflitto etico morale che divora il protagonista, al crescente senso di colpa che agguanta una giuria popolare che ha fretta di arrivare al verdetto per tornare alla propria vita di famiglia, ed alle crepe di un sistema giuridico più teso all’inquisizione che alla ricerca della verità. Perché quell'”oltre ogni ragionevole dubbio” che dovrebbe muovere la macchina della giustizia risulta smussato, fragile, influenzabile da ciò che con l’onere della prova ha poco a che vedere. E poi c’è la politica dalla quale non si sfugge. Quell’interesse di parte per fare carriera e per arrivare ai piani alti. Quell’asfaltare tutto e tutti pur di detenere lo scettro di un potere sì temporaneo, ma estremamente condizionante la vita di una collettività.
Ratio ed Aequitas vengono messe in discussione e ne escono tramortite. Il riferimento al processo sommario e colpevolizzante ad ogni costo è tutt’altro che impercettibile in un film che ha una denuncia, al suo interno quasi a voler porre, a sua volta, delle domande: può una giuria che non ha facoltà di indagare e di agire autonomamente disporre della vita di una persona? Può, sulla base di una ricostruzione di parte, emanare un verdetto di condanna o assoluzione? Clint Eastwood pone le domande ma sentenzia la sue risposte e la sua visione d’insieme. Vuole che lo spettatore la comprenda e, per questo, lo mette nella condizione di farsi un’opinione in merito. L’equilibrio tra bene e male, tra equità e giustizia, tra prudenza e impeto è vorticoso, in un continuo ribaltamento di fronti che, fino all’ultimo, non lascia intravedere una soluzione.
A novantaquattro anni il regista di San Francisco è dannatamente lucido e pungente, specialmente nel richiamo a quel “In God we trust” che guida il pensiero del cittadino statunitense, bene impresso sopra lo scranno del giudice. Un motto che sa di monito ma anche di rifugio, di fuga e compromesso.
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Ed ecco che tornano in mente le parole che Franklin Delano Roosvelt scrisse nel novembre del 1907, “mettere un tale motto sulle monete, o usarlo in qualsiasi modo affine, non solo non fa bene, ma fa un danno, ed è in effetti un’irriverenza, che si avvicina pericolosamente al sacrilegio”. Il trentaduesimo Presidente degli Stati Uniti d’America aveva ben compreso quanto labile ed evanescente potesse essere questo motto, tanto soggetto all’abuso utilitaristico quanto strumentalizzabile all’occorrenza. “Ogni uso che tenda a sminuirlo, e, soprattutto, ogni uso che tende a far sì che venga trattato con spirito di leggerezza, è da ogni punto di vista profondamente deplorevole. Mi sembra assolutamente imprudente sminuire un simile motto utilizzandolo sulle monete”.
La contemporaneità di queste parole è difatti sorprendente. Nelle due ore di film, lo sguardo del regista si posa più volte sulla bilancia, simbolo per antonomasia della giustizia e dei suoi valori. A seconda delle varie fasi del processo è stabile e ferma oppure è mossa dal vento e instabile in un evidente richiamo metaforico allo sbilanciamento, cioè al pensiero della giuria popolare che, inquieta e insicura, dovrà condannare o no l’imputato all’ergastolo. Ma non siamo di fronte a un processo kafkiano. Come detto, a uscirne demolito è l’onere delle prova e quel “colpevole oltre ogni ragionevole dubbio”. Come viene detto alla fine del film, verità e giustizia non corrono sullo stesso binario.
“Giurato numero 2” si presta a diventare una pietra miliare della cinematografia di genere. Qualcuno crederà in Dio, noi crediamo a Clint Eastwood e, a modo nostro, seppure in modo dissacrante e miscredente, lo veneriamo e ringraziamo per averci regalato l’ennesimo straordinario film di una carriera unica e magistrale. Tutti in piedi, allora, per tributarlo. Ancora una volta.