Recensione. “Five Nights at Freddy’s”: di cosa stiamo parlando?
“Five Nights at Freddy’s” non è un film adatto a chi, nella vita, ha bisogno di certezze. Ispirato all’omonimo e celebre videogioco, è però un lavoro senza arte né parte. Dovrebbe possedere i connotati da horror movie, ma di sangue neanche a parlarne, e quelli del genere thriller, evidentemente latenti fin dalle battute iniziali e, per questo, a malapena percepibili. Non che attorno alla sua uscita ci fosse chissà quale attenzione o aspettativa vertiginosa, anche perché i suoi costi di produzione non erano sufficienti a sorreggere entrambe le prospettive (circa 20 milioni di dollari il budget complessivo investito) ma questo primo capitolo di quello che diventerà un nuovo franchise non ha convinto proprio tutti.
Va segnalato che, il giorno del suo debutto al cinema, ha incassato circa 40 milioni di dollari, rivelandosi il miglior esordio di sempre per un film ispirato a un videogioco. In sole ventiquattr’ore sono stati recuperati i costi sostenuti, quindi. Soddisfatto Jason Blum della Blumhouse Productions che ha rivendicato l’idea e gli accordi stretti con la Peacock e la Universal per la distribuzione del film in streaming e nelle sale cinematografiche. Insomma, senz’altro una buona intuizione, la sua.
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Ma FNAF è troppo poco impressionante per attecchire su un pubblico adulto o, comunque, conoscitore del genere, e troppo poco spinto per un pubblico adolescenziale che, abituato al web dove circola di tutto, difficilmente potrà restarne scioccato se non colpito. “Five Nights at Freddy’s” è un ibrido che non sa a chi parlare. E dire che, per la sua uscita sul grande schermo, la casa di produzione Blumhouse ha messo le mani avanti presentandolo con questo bel copy: “contenuti fortemente violenti, immagini di sangue e linguaggio spinto“. Non un prodotto vietato ai minori di diciotto anni ma solo a quelli di tredici (quindici nel Regno Unito, invece) Ecco, se si tiene in considerazione questa età, forse si riesce a individuare il target di spettatori cui è rivolto. A loro ed ai curiosi, ma nulla più.
Gli animatronics presenti all’interno del ristorante ormai in disuso, e che un tempo animavano feste ed eventi, sono l’unico aspetto del film in grado di scavalcare la sufficienza. Con il giusto gioco di luci e fattore vedo/non vedo possono anche risultare convincenti nel tentativo di risultare inquietanti. Il lavoro alla regia della Tammi non coinvolge lo spettatore come avrebbe potuto e dovuto, anche perché ripiega su tanti cliché del genere horror talmente abusati da passare inosservati. Ma anche qui vale il discorso di cui sopra: gli occhi di un dodicenne vedono cose diverse rispetto a quelli di un trentenne.
Trama
Mike Schmidt è una guardia giurata tormentata da un terribile episodio di cronaca avvenuto durante la sua infanzia. Lo sogna tutte le notti e ogni volte con un elemento differente, quasi nel tentativo di provare a riscriverne il finale. Prende servizio al Freddy Fazbear’s Pizza, locale molto in voga negli anni ’80 ma ormai chiuso, in cui si verificano strani episodi durante la notte. Ha una vita complicata e una sorella più piccola di nome Abby da accudire. Scoprirà che l’apparente calma del ristorante in disuso cela misteri inquietanti in grado di metterlo in pericolo…
Scott Cawthon, creatore del gioco, è anche tra gli sceneggiatori della pellicola diretta da Emma Tammi con Josh Hutcherson nei panni di Michael Schmidt, Piper Rubio in quelli di Abby, Elizabeth Lail in quelli di Vanessa e Matthew Lillard che interpreta William Afton/Steve Raglan.