Recensione. Beetlejuice Beetlejuice, cioè la fine di un regista visionario
Ecco il plot: L’ex adolescente Lydia Deetz torna a Winter River dove ritroverà le sgradite apparizioni dell’incontenibile Beetlejuice. Lei è cresciuta ma non ha perso l’abilità di vedere i fantasmi, solo che adesso la sfrutta per portare visibilità e soldi al suo show televisivo: “Ghost house”.
La morte rocambolesca e improvvisa del padre la riporta a Winter River, insieme alla figlia Astrid e alla matrigna Delia, per un ultimo saluto al defunto, proprio nel momento in cui viene visitata, a distanza di trentacinque anni, dalle sgradite apparizioni dell’incontenibile Beetlejuice, del quale sperava di essersi liberata per sempre.
Mentre Lydia è inseguita dalla sua vecchia conoscenza, lui è inseguito dalla sua ex moglie, che ha rimesso insieme i pezzi del proprio cadavere con una sparapunti, e anela a spettacolare vendetta. Intanto la giovanissima Astrid (Mercoledì attraverso lo specchio), infastidita dalla stranezza della madre, fa amicizia con un ragazzo locale che cita pericolosamente Dostoevskij.
Sequel tanto atteso quanto (via via) temuto, Beetlejuice Beetlejuice riesce quantomeno a contenere, riassumere e in parte persino spiegare la parabola creativa di Tim Burton, qui alle prese con l’inevitabile passare del tempo, i mutamenti generazionali e le derive del cinema (e dell’immaginario) hollywoodiano. Nel bene e nel male, un’opera-mondo forse definitiva, tombale. Un immaginario che perde i pezzi, alcuni insostituibili. Non solo la voce di Harry Belafonte, ma anche l’eroina teen Winona Ryder, non rimpiazzabile dalla pur volenterosa Jenna Ortega.
Non c’è, non ci può essere, un passaggio di consegne. Avvinghiati al plastico di Winter River, a questo momentaneo trionfo sugli arrembanti pixel (con l’AI sempre più galoppante, incombente e minacciosa), mettiamo in saccoccia il cameo di Danny DeVito, l’intramontabile verve di Michael Keaton, la presenza persino superflua ma romanticissima di Monica Bellucci (un po’ sposa cadavere, un po’ Sally di Nightmare Before Christmas). Ah, l’amore, cosa fa l’amore anche quando si sono perse fantasia ed ispirazione
Nel volo armonioso e un po’ ingannevole della macchina da presa sulla cittadina di Winter River si intrecciano passato, presente e futuro del cinema. Non solo del cinema di Tim Burton ma un po’ di tutta l’industria dei sogni. Infatti, pur non rinunciando totalmente al supporto della computer grafica, Beetlejuice Beetlejuice poggia le proprie immaginifiche fondamenta sull’analogico, sull’esistente, sulla capacità di costruire e ricostruire qualcosa che non si limiti alla mera patinata illusione degli effetti digitali, della dimensione virtuale.
Nulla di male ovviamente nel digitale, ma è sempre una questione di misura, finalità e contesto. Nella ripresa aerea che apre l’ultima fatica di Burton il ritorno è duplice: all’originale Beetlejuice – Spiritello porcello dell’oramai lontanissimo 1988 ma anche – e forse soprattutto – a un’estetica più artigianale, a una manualità che è anche fonte di idee, a una spazialità nobilitata da illusioni ottiche e movimenti di macchina. Insomma, il senso e al tempo stesso il trionfo della settima arte, al di là della riuscita o meno della pellicola.
Al di là e Aldilà. Nel riesumare cadaveri e fantasmi del suo glorioso passato, Burton certifica quel che è stato e quello che, purtroppo, non è più da parecchi lustri. Quale sia lo spartiacque della filmografia burtoniana, magari Planet of the Apes – Il pianeta delle scimmie (anche se, ad esempio, poi sono arrivati La sposa cadavere e Frankenweenie, mica fesserie), non è poi così interessante o utile, anche perché non è sempre facile distinguere l’ispirazione dai suoi riflessi, dai fantasmi di idee ingannevolmente splendenti.
E in tal senso, ahinoi, Beetlejuice Beetlejuice è ingannevole, ci rincuora, ci illude. Risplende nel portarci indietro, fin dall’incipit, ad ogni nostalgica entrata in scena, ad ogni omaggio o citazione – tra tutte, il coro a cappella di Day-O (The Banana Boat Song) durante il funerale. Si arena malamente, invece, a ogni tentativo di rinnovarsi, di aggiungere qualcosa. Il nuovo non c’è, non c’è più. Siamo dalle parti della pur gradevole Mercoledì, anche nella prevedibilità della scrittura. Torniamo a questo film che ha aperto la 81^ Mostra di Venezia.
Burton mischia anche qui i generi con sequenze fantastiche, il «suo» aldilà è pieno di colori, di figure che conoscevamo e che ritornano variate nelle nuove possibilità tecnologiche – i serpentoni di sabbia – di musica, di invenzioni, la banchina del Soul Train destinazione ignota e senza ritorno è un musical di Broadway, i defunti stanno sempre in una sala d’attesa che somiglia a una qualche ufficio terreno, e hanno i corpi che «raccontano» la loro morte: divorati dallo squalo a metà come Charlie Deetz o pieni di pesciolini come il marito di Lydia e padre amatissimo di Astrid affogato nel Rio delle Amazzoni. A complicare le cose c’è una ex di Beetlejuice che vuole succhiargli l’anima (Bellucci) e quel poliziotto «finto» – Dafoe – che va a caccia di vivi quando valicano la porta dei morti citando film di genere (omaggio esplicito a Mario Bava).
Ma in definita nulla brilla davvero e tutto è smunto ed opaco, un’operazione vintage di nostalgia nella quale il regista sembra divertirsi a disseminare senza rimpianti il presente nel passato, quasi che quel plastico fermo nella soffitta sia fermo anche lui. Comunque è il film campione di incassi in un settembre che ha visto il cinema in profondissima crisi, crisi che secondo Dagospia (che ormai è il giornate di riferimento non dei cialtroni ma di quelli che si reputano intelligenti) sarebbe dovuta a una oscura manovra del governo Meloni e dell’ormai ex ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano, che avrebbe addirittura scatenato tra gli italiani l’odio per le sale cinematografiche.
La tesi delirante è stata esplicitata da Marco Giusti, critico cinematografico tra i più noti, già autore della trasmissione cult Blob (povero Ghezzi). Il giornalista (che fino ad oggi apprezzavo) pronuncia la sua sentenza: «In realtà i film ci sarebbero, ma non c’è alcun tipo di comunicazione, né di attrattiva per andarli a vedere. L’odio scatenato da Sangiuliano & Co per il cinema, visto come macchina per dare soldi ai fighetti di sinistra ha completato l’opera. Altro che complotto contro di lui. Così non andiamo da nessuna parte». Che fesseria! La crisi non solo settembrina del cinema ha ben altre cause: dipende dalla concorrenza di Netflix e delle altre piattaforme, dipende da un rito collettivo che tra gli italiani si va perdendo, è causata dalla programmazione nelle sale di tante pellicole inguardabili, “girate in due camere e cucina”, colpa di una narrazione che impone gli stessi temi triti e ritriti e quasi sempre politicamente iper corretti e allineati a una sola visione del mondo.
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Ora provate a immaginare la scena così come la teorizza Marco Giusti. Sabato mattina, lui e lei nel salotto di casa. “Cara, stasera andiamo al cinema?” E l’altra che risponde categorica: “No, tesoro perché Sangiuliano ha detto che è meglio di no, sennò diamo i soldi ai fighetti di sinistra”. Dalla commedia all’italiana alla fantascienza è un attimo. E magari riesumiamo Antonio Margheriti a firmare la regia del tutto, con il titolo: “I Diafanoidi vengono da Pompei”.
Articolo di Carlo Di Stanislao