[Recensione] “Baby Reindeer”: quando la vittima di abusi è un uomo
“Se non vivi una vita degna di essere vissuta, qualcuno può permettersi di rovinarla?”
Nella Top10 di Netflix c’è un titolo che in pochi giorni ha conquistato milioni di spettatori in tutto il mondo: “Baby Reindeer“, diretto e interpretato da Richard Gadd.
In questo caso non parliamo di nessuna strategia di marketing in particolare, nessun grande nome del piccolo e grande schermo: a destare curiosità è stato il passaparola attraverso i social e la consapevolezza che la disturbante trama narrata sia tratta dalla vera storia del regista e attore principale.
“Baby Reindeer” (“Piccola renna“) racconta il lungo calvario di un giovane comico scozzese, vittima di una stalker seriale per quattro lunghi anni. Richard Gadd ci porta nel suo traumatico passato e nel suo provato inconscio in una serie che, in sole sette puntate da circa mezz’ora, prende ripetutamente a pugni lo stomaco dello spettatore.
L’aspirante comico (uno stand-up comedian per la precisione) Donny (Richard Gadd) si guadagna da vivere in un pub di Londra. Un giorno conosce Martha (magistralmente interpretata da Jessica Gunning), una donna disperata e teneramente stramba, che dice di essere un avvocato di alto livello, ma non ha un soldo per comprare una tazza di the. Donny, che cade vittima de “la sensazione paternalistica e arrogante di dispiacersi per qualcuno appena lo si vede“, si mostra gentile con lei e le offre da bere, provando in qualche modo un’attrazione per Martha, per la sua risata squillante e la sua vita misteriosa.
Ma quel semplice gesto compassionevole gli costerà molto caro: l’interesse della donna, che ha venti anni più di lui, si fa sempre più morboso. Martha chiama Donny “Piccola Renna”, lo tempesta di complimenti e battute sconce indesiderate, per poi inviargli centinaia di email al giorno, stazionare al bancone del bar per ore durante il suo turno di lavoro e diventare presenza fissa negli spettacoli in cui inizia a muovere i primi -pessimi- passi come comico.
La presenza della donna nella vita del giovane si fa sempre più ingombrante, ma nonostante lui riconosca dei chiari campanelli d’allarme, si sente lusingato dai complimenti e dalle attenzioni di quella che gli appare come una fragile mente malata, che però vede in lui “ciò che avrebbe sempre voluto essere“. Scopre che si tratta di una stalker seriale già condannata ma, un po’ per empatia, un po’ per migliorare la sua autostima, un po’ nella speranza di ricavarne qualcosa per i suoi sketch, accetta la sua richiesta di amicizia su Facebook.
Quando però Martha inizia ad aggredire verbalmente e fisicamente anche le persone a lui vicine (l’ex, i colleghi, i genitori e la sua ragazza in quanto trans), Donny trova il coraggio di denunciare Martha. Ma una domanda del poliziotto che prende la situazione con estrema leggerezza aprirà un vaso di Pandora che porterà Donny ad un crollo.
“Sei mesi? Perché ci ha messo così tanto a denunciarla?”
E perché Donny non racconta delle molestie di Martha che lo palpeggia sbattendolo contro un muro o di come ha strappato ciocche di capelli dalla cute della sua ragazza?
La verità è che tra vittima e carnefice si sta creando una sorta di legame che Donny analizza continuamente e schiettamente insieme allo spettatore, al punto da affermare che quasi si rispecchia in lei.
La verità è che denunciare la violenza di Martha riporta a galla un trauma vissuto in un passato non troppo lontano, ma troppo a lungo tenuto in segreto, con gravi ripercussioni sul presente di Donny.
Non sveliamo il flashback cui è dedicata la quarta puntata (che si apre con l’avvertenza per gli spettatori più sensibili riguardo a scene di violenza sessuale) che rappresenta una vera e propria svolta. Invitiamo invece a riflettere sulla scena finale (per cui non sono necessari spoiler). Se, all’inizio della serie, Donny prova compassione per Martha visibilmente scossa e le offre un tè, firmando così inconsapevolmente la sua condanna, sul finale è lui a sentirsi perso al bancone di un bar e ricevere la stessa benevolenza dal barista.
La scena di chiusura sembra alludere al fatto che, ora, anche lui diventerà uno stalker seriale ma, come l’attore stesso ha spiegato in un’intervista, voleva semplicemente catturare la natura umana e le sue sfumature. Riproponendo la stessa scena, ma con ruoli diversi, ha quindi sottolineato che non ci sono persone solo buone o solo cattive ma tutti abbiamo zone d’ombra e di luce e siamo alla ricerca (talvolta disperata) dell’amore, per gli altri ma soprattutto per se stessi.
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Una storia estremamente vera
In sole tre ore e mezza, Richard Gadd affronta i più svariati temi, più attuali che mai: l’odio per se stessi, lo stalking, lo stupro maschile, l’omotransfobia, l’insita paura del pregiudizio, le difficoltà nello show-biz, il ricatto, la perdita, la pedofilia, la dipendenza da droghe. E lo fa in un modo così diretto, mettendosi completamente a nudo (non solo fisicamente riuscendo a realizzare determinate scene senza cadere nel voyeurismo) e con un ritmo così martellante da lasciare lo spettatore senza fiato, perso tra i mille spunti, le riflessioni e le tante sfaccettature di una storia realmente accaduta tra il 2015 e il 2018, dalla cui narrazione il protagonista non esce completamente pulito.
Nessun aspetto di Donny, e di conseguenza di Gadd, sembra essere stato risparmiato in questa serie radicalmente rivelatrice. “Baby Reindeer” immerge il pubblico nella vicenda così tanto da farlo quasi sentire un po’ stalker, così come ad un certo punto si sente a sua volta il protagonista. Ma la serie risulta disturbante proprio perché, oltre a mostrare gli aspetti più morbosi e contorti generando quasi un senso di claustrofobia nello spettatore, ci offre tanti momenti di empatia, compassione e una sorta di “dolcezza“, anche nelle scene più crude.
I contenuti che leggiamo e ascoltiamo insieme a Donny sono proprio quelli che leggeva Gadd, che ha ricevuto riceverà più di 40.000 email, 350 ore di messaggi vocali, 740 tweet e 106 pagine di lettere dalla sua vera “Martha”. Messaggi veri quanto i diversi pensieri di Donny/Richard che scandaglia il suo inconscio e ammette i suoi errori nella vicenda che si è trasformata sempre più in un incubo, mentre le forze dell’ordine se ne lavavano le mani, cadendo completamente nel gioco consapevole della stalker.
«Lo stalking in televisione tende a essere molto eccitante: alcune produzioni lo rendono sexy. Ma lo stalking è una malattia mentale. Volevo davvero mostrare le sue diverse fasi, mostrando caratteristiche umane mai viste in Tv»
ha dichiarato Richard Gadd al The Guardian, ricordandoci quanto la realtà sia lontana dai cliché in stile Attrazione fatale. E con grande coraggio, nella serie l’attore e regista racconta anche la sua disperazione, la depressione e gli istinti auto-distruttivi che gli hanno in qualche modo impedito di reagire all’invasione operata dalla sua stalker in ogni ambito della sua esistenza.
Quando la vittima è un uomo
Il diffuso successo di “Baby Reindeer” è dovuto anche alla sua quasi totale compatibilità con la storia di Gadd, al punto che la curiosità di alcuni utenti sui social rischia di sfociare in una sorta di morboso voyeurismo nei confronti della vera stalker: c’è chi condivide foto della donna che dovrebbe corrispondere al personaggio e chi cerca video in cui si possa ascoltare la risata della “vera Martha”.
Ma bisogna riportare l’attenzione sul vero scopo della serie: fare luce sul tema dell’abuso sessuale sugli uomini.
Questa serie autobiografica racconta in modo assolutamente chiaro, diretto e impietoso l’incapacità di reagire del protagonista e il magma della vergogna e dei sensi di colpa, la solitudine di questa donna disturbata e gravemente bisognosa di aiuto, nonché l’inadeguatezza della polizia, che nonostante numerose denunce e condanne precedenti non mette fine alla persecuzione finché non arrivano minacce esplicite di violenza fisica.
L’atteggiamento poco convinto della polizia, la mancata comprensione verso chi ha bisogno di tempo denunciare, o ancora la sufficienza con cui vengono ignorati campanelli d’allarme ben chiari, ci fanno pensare che questa serie voglia dimostrarci come la violenza, lo stalking e lo stupro non guardino al genere o alla sessualità delle vittime.
“- Se io fossi una giovane donna e un uomo di quarant’anni mi mandasse email che parlano di seg*e, sarebbe una minaccia credibile?
– Se lo stalker è un uomo e la vittima è una donna, la minaccia di un uomo è “fisica”, ha un peso maggiore“
Ma la disperata domanda che Donny rivolge al poliziotto e soprattutto la sua spiazzante risposta, ci dicono chiaramente che lo stalking e lo stupro maschile sono ancora estremamente dei taboo nella nostra società. Non solo per la difficoltà di parlarne, ma anche per la mancanza di interesse e rispetto (e dunque di servizi) da parte delle stesse istituzioni. Il tutto ovviamente a causa di una così sbagliata ed estremizzata idea di virilità secondo cui l’uomo non può essere una vittima, non può essere sottomesso e abusato da una donna o da un altro uomo.
La violenza sugli uomini è un fenomeno che, per quanto diffuso in scala ridotta rispetto alla violenza sulle donne, persiste e genera gravi conseguenze a livello fisico, emotivo psicologico e talvolta anche economico sulle vittime. Gli uomini che hanno subito violenza mostrano dunque gli stessi disturbi post-traumatici dell’abuso sessuale degli altri sopravvissuti, ma possono dover affrontare anche ulteriori difficoltà dovute agli stereotipi di una società fortemente patriarcale.
La tanto agognata quanto ancora lontana “parità dei sessi” implica anche questo: ammettere che la violenza non conosce sesso. Ma nell’attuale società, la mancanza di parità colpisce in maniera collaterale anche il genere maschile al punto che risulta davvero difficile reperire dati sugli uomini vittime di abusi.
Ne è una chiara prova questo semplice esperimento: cercando su Google “statistiche stalking e stupro maschile in Italia“, il primo risultato che compare in alto è un report ufficiale dell’Istat (qui) intitolato “Il numero delle vittime e forme della violenza“, in cui le vittime maschili non sono affatto considerate. Anzi gli uomini compaiono solo in quanto carnefici.
Giunge in nostro aiuto l’Istituto A. T. Beck che riporta i seguenti dati:
“Secondo alcuni dati, approssimativamente 1 uomo su 4 ha subìto una qualche forma di contatto sessuale indesiderato nel corso della propria vita, mentre più di 1 uomo su 38 è stato vittima di tentato stupro o stupro che prevedeva la penetrazione orale e/o anale. Nel 71% dei casi queste violenze avvengono prima dei 25 anni (Centers for Disease Control and Prevention, 2017). In generale, molti studi mostrano che l’età della maggior parte delle vittime maschili è compresa tra i 20 e 30 anni, così come quella della maggior parte delle donne. A differenza delle donne, però, emerge dai dati che gli uomini sono maggiormente soggetti a più di un abuso sessuale (Riggs et al., 2000).
Alcuni studi, infatti, distinguono tra i casi di stupro in cui gli uomini subiscono la penetrazione e quelli in cui l’uomo viene costretto a penetrare o a svolgere altre attività sessuali senza il suo consenso. La coercizione può avvenire mediante l’uso di forza fisica o perché la vittima è incapace di esprimere un consenso esplicito (ad esempio, è incosciente o sotto l’effetto di alcool e droghe). Per questo tipo di violenze, è stato riscontrato che i perpetratori sono più spesso donne (79-82%) (Centers for Disease Control and Prevention, 2017).”
Se il cinema molto spesso influenza la realtà, ci auguriamo che l’autentica confessione di Richard Gadd riesca ad aprire gli occhi su un fenomeno tanto sconcertante quanto taciutamente diffuso.