Recensione. “Adolescence”, una serie tv spietata, cruda e maledettamente intensa

“Adolescence“, mini serie tv di quattro episodi autoconclusivi, è destinata a rivelarsi tra i prodotti più interessanti di questa stagione. Siamo solamente a metà marzo, ma la nuova uscita Netflix si è da subito contraddistinta per il forte impatto emotivo evocato dalla storia narrata, talmente intenso da assottigliare la distanza tra immaginazione e realtà. La forza principale di questo lavoro è, infatti, quella di trasportare lo spettatore all’interno delle vicende che vengono descritte. Noi che guardiamo non siamo parte in causa, ma è come se lo fossimo, viviamo ogni attimo al fianco dei protagonisti, sentiamo il loro respiro, vediamo le loro lacrime e percepiamo le loro paure, angosce e frustrazioni. In “Adolescence” è tutto spietatamente crudo e intenso, angosciante e claustrofobico perché, di fronte a una tragedia, non c’è nessuna realtà da addolcire e nessun fiocco rosa da apporre per stemperare il dolore.
La regia è affidata a Philippe Barantini e nel cast troviamo Stephen Graham (creatore della serie assieme a Jack Thorne) che veste i panni di Eddie, il padre di Jamie (interpretato da Owen Cooper), Ashley Walters è l’ispettore Luke Bascombe, Erin Doherty è la psicologa Briony Ariston, Christine Tremarco è la moglie di Eddie e Amélie Pease è Lisa, l’altra figlia della coppia. Tra i produttori esecutivi vi è anche Brad Pitt.
Tutto ruota attorno all’accusa di omicidio volontario cui deve rispondere il tredicenne Jamie, portato via dal tepore del letto di casa quando è appena l’alba. La polizia irrompe nella sua abitazione, butta giù la porta, fa sdraiare a terra i componenti della famiglia e lo preleva per portarlo in commissariato. E’ l’inizio del calvario, di pressanti interrogatori, di perquisizioni fisiche e di colloqui con psicologi che metteranno in luce tutte le sfumature del suo animo. Da questo momento, a quello della convalida dell’arresto, passeranno venticinque minuti, esattamente come nella realtà di chi sta guardando. Un dettaglio raggelante ma che rende benissimo l’idea di quali possano essere le tempistiche per fatti simili. Tutto ciò che avviene nei quattro episodi è vissuto in “presa diretta”, ed è maledettamente coinvolgente.
La regia di Barantini, focalizzata su un unico piano sequenza, si contraddistingue per un approccio estremamente incisivo che riesce a catturare in modo autentico e viscerale le sfumature emotive e psicologiche del periodo adolescenziale. Dietro la telecamera, il regista ha scelto di adottare un linguaggio visivo che enfatizza l’intensità emotiva dei momenti, spesso utilizzando inquadrature strette e primi piani per mettere in risalto la vulnerabilità dei protagonisti. Fondamentale l’uso della camera a mano, che conferisce un senso di immediatezza e urgenza, trasportando lo spettatore dentro la testa dei personaggi. La ripresa non è mai statica ma si muove fluidamente, quasi come se stesse seguendo il flusso mentale dei personaggi. Questo movimento contribuisce a trasmettere il senso di pressante instabilità emotiva che accompagna l’adolescenza, periodo di vita dove i confini tra la realtà e la percezione interiore sono particolarmente sfocati.
Inoltre, le inquadrature strette e i dettagli ravvicinati sono utilizzati con grande efficacia per catturare le micro-espressioni facciali dei personaggi, che diventano il fulcro della narrazione emotiva. Ogni piccolo cambiamento nel volto dei protagonisti come un sorriso forzato, uno sguardo perso o una lacrima trattenuta, è espresso con un’intensità tale da rendere lo spettatore partecipe della loro esperienza emotiva, come se stesse vivendo le stesse ansie e inquietudini. E poi ci sono gli ambienti dove tutto si svolge, ed è in quel contesto che l’intensità aumenta con la scelta dell’illuminazione focale che gioca un ruolo fondamentale nel creare l’atmosfera vincente.
In molte scene la luce è morbida e diffusa e questo crea un’ambientazione che riflette la confusione e l’angoscia dei protagonisti. In altre, invece, l’uso di luci dure e ombre marcate contribuisce a esprimere i momenti di conflitto interiore o le difficoltà psicologiche dei personaggi. La palette di colori, spesso nei toni del blu e del grigio, rafforza ulteriormente il senso di malinconia e solitudine che pervade la serie, mentre qualche accenno di colori più caldi emerge nei momenti di connessione o speranza, suggerendo la ricerca di una via di uscita dalla sofferenza. In “Adolescence” nulla è lasciato al caro e anche le più impercettibili sfumature e più – apparentemente – insignificanti dettagli giocano la differenza.
Il montaggio è un altro elemento tecnico che merita particolare attenzione. La serie alterna con naturalezza sequenze più lente e contemplative, che permettono ai personaggi di riflettere sul proprio mondo interiore, a momenti più frenetici e caotici. Il ritmo è calibrato con grande precisione e le scene più intense, come quelle di conflitto o di crisi, sono spesso montate in modo rapido, con un alternarsi di inquadrature che riflettono l’ansia, l’angoscia e la paura che connatura la gran parte delle scene. Tutti questi dettagli non sono un mero esercizio tecnico fine a se stesso o, almeno, alla produzione del lavoro, ma diventano un mezzo per raccontare la psicologia dei protagonisti. La scelta di focalizzarsi su dettagli come il battito cardiaco, il respiro affannato o il silenzio angoscioso in certe scene contribuisce a trasmettere le emozioni non dette, quelle più difficili da esprimere verbalmente. Barantini riesce a farci arrivare il senso di isolamento e di incomunicabilità, che è centrale nel periodo adolescenziale, senza però mai cadere nella trappola del didascalico.
L’opera è chiaramente ispirata alla realtà della crescita adolescenziale, con un focus sulla lotta per la costruzione dell’identità. I protagonisti si confrontano con temi universali come il bullismo, l’isolamento, la scoperta della sessualità e la complessità dei legami familiari. Questi temi sono trattati con una sensibilità psicologica che va oltre le semplici dinamiche interpersonali, affrontando le sfide legate alla salute mentale e alle difficoltà emotive. La serie esplora anche la pressione sociale legata alla definizione del proprio posto nel mondo e la ricerca incessante di accettazione da parte dei coetanei. E poi ci sono i social network, dove ormai quella fascia d’età trascorre gran parte della propria vita anche grazie a un modo di comunicare personale e spesso criptico se non in codice. Un mondo estraneo agli adulti.
Uno degli aspetti più apprezzati di “Adolescence” è l’approfondimento psicologico dei suoi protagonisti. La serie non si limita a dipingere una semplice storia di crescita, ma si addentra nelle sfumature più intime dei suoi personaggi, esplorandone insicurezze, paure e conflitti interiori. L’ansia, la solitudine e la difficoltà di comunicare con gli altri vengono esplorati in maniera cruda e senza censure, con risvolti che spesso toccano corde di elevata sensibilità. Nei quattro episodi viene messo in luce come le esperienze traumatiche dell’infanzia, o le difficoltà relazionali in sospeso, possano lasciare cicatrici profonde e influire sullo sviluppo psicologico degli adolescenti. E, spesso, nessuno se ne accorge fino a che non si manifestano in maniera violenta o aggressiva. A quel punto è troppo tardi. Può capitare a chiunque, nessuno è realmente al sicuro.
Ognuno degli attori è perfettamente calato nella dimensione del proprio personaggio. L’affiatamento è corale e, in più circostanze, viene espresso un livello di recitazione altissimo. Il terzo episodio, su tutti, è di un’intensità emotiva straordinaria, con picchi ansiogeni altamente incisivi. Come detto, siamo solo a marzo, ma siamo pronti a scommettere che, alle classifiche di fine anno, “Adolescence” sarà certamente nella top10 delle serie più apprezzate. Da guardare, assolutamente.