Quando l’Abruzzo supera sé stesso: il borgo medievale di Roccascalegna e il suo castello fiabesco
Abruzzo delle meraviglie: ingegno e senso estetico riuniti nel castello di Roccascalegna.
“A ògne ttèrre c’è na usanze; a ògne mmijjicule c’è na pànze.” Traduzione letterale per i “forestieri”: “A ogni paese la sua usanza, ad ogni ombelico la sua pancia“.
Così recita un detto popolare abruzzese, che esprime bene il senso di identità degli abitanti di questa stupenda terra. Col fenomeno della globalizzazione attuale si stanno perdendo le radici profonde che penetrano fin dentro al midollo osseo di una cultura, che sono sempre esistite in ogni agglomerato umano, tribù o società. Ricchi mercanti senza scrupoli né coscienza, rampanti ambiziosi banchieri senza identità e idioti politicanti senza storia, senza terra, ci provano di continuo a (s)vendere la loro gente al miglior offerente, ma l’Abruzzo e la sua gente al momento si difendono ancora bene.
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Non stiamo affatto facendo della retorica quando affermiamo con certezza che in Abruzzo abbiamo veramente tutto ciò che ci occorre: dalle montagne al mare, dai laghi ai fiumi, dal clima tropicale della costa a quello Siberiano dell’entroterra. L’Abruzzo, tra le tante altre cose, ha dato spesso i natali a così tanti personaggi storici che ormai non si contano più. Così, giusto per dirne uno: Vincenzo Pelliccione, in arte Eugene DeVerdi, nato a Rosciolo dei Marsi nel 1893, controfigura ufficiale di Charlie Chaplin, in arte Charlot.
Ma ciò che rende davvero unica questa magnifica terra nell’immaginario comune sono in particolar modo le sue montagne e i suoi castelli. Dal monte Velino, per gli escursionisti più duri e selvatici, al più dolce e “turistico” gran sasso, cima più alta di tutto l’Appennino centrale, le montagne ne hanno deciso il destino di questa regione… come affermava nei suoi scritti il marsicano pescinese Ignazio Silone. Senza le caratteristiche montagne che lo contraddistinguono, l’Abruzzo non sarebbe l’Abruzzo. Stessa cosa per il discorso castelli. Vuoi (soprattutto) per finalità pratiche a scopo difensivo, vuoi per finalità estetiche (che non guastano mai) dei tempi in cui vennero eretti, vuoi per puro capriccio del barone o conte di turno, l’Abruzzo conta storicamente oltre ben settecento castelli, ed è per tale motivo che viene anche chiamato la piccola Baviera d’Italia.
Partiamo dal presupposto che i castelli abruzzesi sono tutti bellissimi, sia per la loro struttura che per la loro strategica posizione in cui sono collocati. I castelli di Rocca Calascio nell’Aquilano e quello Aragonese di Ortona nel chietino ne sono un emblematico esempio. Il primo, le cui prime pietre risalgono al XII secolo, è tra i castelli più alti d’Italia, con la sua posizione strategica di vedetta a 1460 m s.l.m., costruito su di un impervio sperone roccioso che si affaccia sull’altopiano di Navelli e quello di campo imperatore, conosciuto anche come “il piccolo Tibet” d’abruzzo. Il secondo invece risalente al XV secolo, costruito in una posizione a dir poco spettacolare, che si affaccia su un suggestivo strapiombo sull’azzurro intenso e sul profumo dell’adriatico.
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E a proposito di castelli, ce n’è uno dove l’ingegno e il senso estetico degli abruzzesi dell’epoca hanno dimostrato (se ce ne fosse ancora bisogno) di essere sempre stati in gran forma. Stiamo parlando del castello di Roccascalegna, piccolo borgo di poco più di mille anime in provincia di Chieti, nel quale chi vi scrive è stato in visita l’ultima volta l’estate scorsa, ed ha avuto modo di vedere con i propri occhi la bellezza di questo gioiello sperduto tra i monti.
La prima cosa che viene in mente al visitatore che “capita” qui per vedere il castello è senz’altro: perché “Roccascalegna”? Da un documento del ‘300 sappiamo che l’abitato veniva chiamato in origine Rocca – Scarengia. Al momento esistono diverse ipotesi sull’origine del toponimo, ma quella più accreditata afferma che tale nome indicava in passato la scala a pioli di legno che conduceva dal paese direttamente sulla rocca. La storia del paese è leggermente lacunosa o per meglio dire “misteriosa”, in quanto non esistono molti documenti che parlino del borgo fino al 1525, e ciò lo rende ancora più affascinante se possibile.
Ciò che sappiamo per certo invece è che il paese nacque come avamposto longobardo contro le incursioni bizantine. Stando alle fonti certe, furono infatti i longobardi che fondarono il paese nel VII secolo d.C., i quali vi costruirono dapprima la torre di avvistamento che dominava valle del rio secco, ed il castello in seguito come lo conosciamo oggi (dopo numerosi inevitabili restauri) con le quattro torri cilindriche e la cinta muraria a proteggere dagli attacchi, come logica e naturale evoluzione. Ma ciò che rende davvero caratteristico questo castello sono in particolar modo due cose, una visiva prettamente estetica, ed una storica. La prima non ha bisogno di molte spiegazioni: il tipo di sperone roccioso sul quale venne costruito è semplicemente stupendo. Sembra come se la parete di pietra sia stata tagliata in senso obliquo da mani umane, tale è la perfezione sulla quale questa gemma è incastonata, e dalla cui sommità si ha una vista sulle montagne circostanti a dir poco sognante e incantevole.
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L’altra invece ha a che vedere con una leggenda che si perde nei secoli, e che riguarda ben pochi castelli italiani. Immaginate di vivere nel XVII secolo, di avere un appezzamento di terra concessovi dal vostro barone feudale, e che con grossi sacrifici riesce a sfamarvi. Immaginate di essere fidanzati con la donna dei vostri sogni, e che lei abbia inspiegabilmente accettato di sposare degli imbranati come voi, che però la amate da morire. Ora immaginate invece che, poco prima delle vostre nozze, il suddetto barone bussi alla vostra porta con la sua arroganza tipica dei ricchi bamboccioni viziati, e pretenda che la vostra amata giaccia con lui la prima notte delle vostre nozze, regalandogli dunque il piacere che spetterebbe a voi e offrendogli la sua (presunta) verginità. E non c’è nemmeno nessun corpo di polizia che venga a prelevarlo o al quale denunciarlo per stalking molesto.
Voi come reagireste? Non vi passerebbe per la testa l’idea di accoltellarlo e togliergli quel suo sorriso borioso dal volto? Non dite di no, ammettetelo, vi leggo nella mente. E pare sia proprio ciò che fece un novello sposo per difendere l’onore della sua amata la prima notte di nozze nel 1646, quando il barone Corvo de Corvis reintrodusse l’editto dello ius primae noctis, e rimase dunque vittima delle sue stesse lussuriose fantasie. Dal latino “diritto della prima notte” è una locuzione che stava ad indicare il diritto di un signore il quale, in occasione del matrimonio di un proprio servo della gleba, poteva sostituirsi al marito nella prima notte di nozze. Stando alla leggenda, non si sa se sia stata la sposa stessa ad accoltellare il barone nel talamo nuziale, o se invece fu il marito stesso che, tendendogli una trappola travestito da sposa, lo accoltellò.
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Quello che invece sappiamo dalla leggenda è che il nostro De Corvis, poco prima di morire, lasciò un’impronta della sua mano insanguinata su di una roccia della torre. Molti visitatori, soprattutto anziani, hanno affermato di averla vista per brevi attimi, ma mai abbastanza a lungo da poter scattare una foto come prova. Non esistono ovviamente prove dell’accaduto, come non esiste nessuna prova storica dell’esistenza dello ius primae noctis, e dato che la storia non si scrive per indizi ma per prove oggettive che trovano riscontro anche al di fuori delle singole realtà locali, non ci resta che confinare e relegare il tutto alla leggenda. Ciò non toglie che sognare è gratis, e siamo liberi dunque di lasciarci affascinare dalla fantasia quando e come vogliamo.
Nel suggestivo castello troviamo comunque altre caratteristiche che hanno certamente riscontro dal punto di vista storico, come ad esempio la sala delle torture, nella quale vi sono riproduzioni realistiche degli strumenti di tortura dell’epoca. Vedere dal vivo oggetti che hanno inferto dolori atroci ed inimmaginabili a persone come noi, di qualsiasi tipo ed estrazione sociale, fa tutto un altro effetto che vederli solo in foto.
In un’epoca in cui la religione serviva più che altro per controllare, attraverso la paura, la mente dei poveri contadini (già provati da una vita di stenti e privazioni) e si praticava la caccia alle streghe, fa venire la pelle d’oca vedere dal vivo strumenti di castigo della santa inquisizione come l’asino spagnolo, la sedia delle streghe o la terribile culla di Giuda. Il primo consisteva in un cavalletto triangolare col vertice affilato, sul quale la povera vittima accusata di stregoneria veniva fatta sedere a cavalcioni con dei pesetti legati alle caviglie per provocarne, col passare delle ore, il dismembramento longitudinale del corpo in due sezioni uguali. La seconda invece era una semplice sedia chiodata sulla quale veniva fatta sedere la vittima, lasciando che i chiodi arrugginiti penetrassero le carni e provocassero, oltre agli atroci dolori, anche infezioni alle quali al tempo non c’era cura. L’ultima invece, la culla di Giuda, era un cavalletto con la punta acuminata sulla quale i genitali o più spesso l’ano del povero malcapitato (o malcapitata) di turno venivano posizionati e, tramite il peso del corpo stesso, penetrava fin dentro l’organismo fino a danneggiare irreparabilmente gli organi interni, provocandone la morte tra i più terrificanti tormenti che potevano durare anche giorni e giorni. Considerando che solo nel XVI secolo le vittime furono centinaia (se non migliaia), possiamo solo dire con certezza che era un’epoca assai strana a dir poco, sì. Ma ogni epoca ha i suoi “come” e i suoi “perché”, e noi non siamo nessuno per giudicare, perché nessuno di noi è senza peccato, e perché ogni volta che puntiamo il dito, tre dita sono rivolte verso di noi. Perché messi nelle giuste condizioni, possiamo creare opere come il David di Michelangelo oppure torturare a morte un altro essere umano, solo per il sadico gusto di farlo. Tutto sta alle nostre condizioni, interiori ed esteriori, nel contesto insomma in cui viviamo.
Nelle vicinanze della sala dellle torture abbiamo invece una sala/museo delle armi, nella quale possiamo toccare con mano una riproduzione del lanciafiamme bizantino, un’arma micidiale in grado di proiettare a grandi distanze una miscela di sostanze altamente infiammabili chiamata fuoco greco, la cui peculiarità consisteva nell’impossibilità di essere spento con l’acqua che, anzi, ne aumentava la forza rendendola esplosiva. La ricetta era segretissima, e tuttora infatti non si conoscono gli ingredienti certi, ma si sa che il suo primo utilizzo fu durante l’assedio da parte degli Arabi a Costantinopoli, nel 678 d.c. per respingere l’invasore. Tale geniale invenzione venne concepita da un greco chiamato Callinico nel VII secolo originario di una città chiamata Eliopolis. I greci si sa, sono matti.
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Ai piedi del castello troviamo poi la chiesa di S. Pietro, la cui data ufficiale di costruzione, e cioè 1568, è stata messa in dubbio da alcune analisi dello stile architettonico. Sembra infatti sia di origine medievale, e gli studi sono tuttora in corso per averne conferma. In ogni caso, vi consiglio assolutamente di visitarla in quanto molto caratteristica e folcloristica.
Ci sono in definitiva tantissime cose belle da scoprire e da toccare con mano in questo splendido borgo, con tanto di fiabesco castello, che non resta che mettervi in marcia e andare a vederlo coi vostri occhi. Non resterete sicuramente delusi.
Per concludere questo nostro tour virtuale in uno dei posti più belli d’abruzzo, quando andrete in visita in quel di Roccascalegna, se ad un certo punto della giornata vi verrà quel languorino a cui non sapete proprio resistere dopo una faticosa giornata di foto e variegate emozioni, dovete assolutamente mettere sotto i denti il pane porchettato del forno della signora Maria. Non vi svelerò altro, perché il nome racconta già di per sé tutta l’esplosione di genuini e autentici sapori che avvertirete sul palato. Una di quelle specialità locali che dovete assolutamente provare.
Viva l’Abruzzo. Viva la forza, e la gentilezza.
Foto: Alessio Di Pasquale
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