Quando gli Zebrahead elogiavano la playmate dell’anno
Album di culto ed emblema del passaggio dagli anni ’90 al 2000. Playmate Of The Year degli Zebrahead rappresenta tutt’ora un album seminale del punk americano e mondiale. Un disco che riportò in auge la frangia più melodica del punk, ma non per questo meno aggressiva. Tutt’altro. Lo spirito ribelle e la libertà che trasudavano da quelle note fecero del lavoro un importante punto di riferimento del movimento.
Figlio della scuola americana degli anni ’90, in primis quella di Blink-182 e The Offspring, Playmate Of The Year uscì il 22 agosto del 2000, in una torrida estate di ben 21 anni fa. Dal sound vagamente surf rock, i riff sbarazzini e anticonformisti del punk, e l’attitudine rock, il disco fu un vero successo. Complice soprattutto la copertina, che ritraeva l’attrice e modella statunitense Jodi Ann Paterson, coniglietta e, per l’appunto, playmate dell’anno della celebre rivista Playboy.
Giocando proprio sugli stereotipi maschilisti e propriamente americani, l’album divenne un simbolo di quell’America sfrontata e materialista. Il celebre ed omonimo singolo, infatti, era un vero e proprio tripudio all’eccesso. Tra belle donne, curve a perdita d’occhio e continui riferimenti sessuali, il videoclip venne girato nella celebre Playboy Mansion, la casa e sede principale della rivista Playboy fondata da Hugh Marston Hefner. Del video esistono addirittura due versioni: una censurata in cui le Playmate compaiono vestite ed un’altra in cui mostrano il seno nudo. Lo stesso Hefner, da buon boss dell’eccesso e del sesso, appare all’inizio scortato da tante ragazze. E non è un caso che il brano reciti: «She’s finally here. Whoo, yehh! My Playmate Of The Year»
Ogni epoca ha avuto la sua colonna sonora, quel brano del quale bastano poche e semplici note per riportare alla mente i bei vecchi tempi. Un po’ come l’Italia degli anni ’60, le cui estati erano rigorosamente accompagnate da Abbronzatissima di Edoardo Vianello. Una canzone che portava con sé un’intera generazione: quell’Italia post bellica della ripresa economica, dove tutti si godevano i frutti del lavoro, tra spiagge incontaminate, sole e belle ragazze (eh, anche all’epoca velati riferimenti sessuali c’erano).
Playmate Of The Year fu l’album con il singolo più rappresentativo delle estati americane, e non solo, dei primi anni 2000. Un gruppo -scusate il francesismo, o forse no- di cazzoni circondati da ragazze, in mezzo ad una bolgia fatta di alcol e feste in piscina. Cosa c’è di più estivo e ‘mmericano di questo? Ma non è affatto un difetto, anzi. Che piaccia o meno gli Zebrahead hanno rappresentato la generazione del 2000, con una musica che sprizza gioia da tutti i pori, allegria in ogni ritornello e che ci fa saltare su e giù per la stanza. Il tutto RIGOROSAMENTE senza prendersi mai sul serio. Quindi i moralisti dell’ultimo minuto possono anche andare a farsi benedire con Playmate Of The Year.
Impossibile essere tristi con quelle note che riportano al calore estivo di quando non si pensava a nulla se non a divertirsi e basta. Soprattutto se quello cantato è un vero e proprio salto generazionale. Perciò, quale miglior modo di rappresentare il passaggio dal XX al XXI secolo se non buttarla in una sana e festosa caciara, tra tuffi in acqua, bevute con gli amici e circondati da ragazze? Alla fine il punk questo era e guai se così non fosse stato! Il dito medio in faccia al pensiero borghese che vorrebbe eccedere e uscire dagli schemi preimpostati ma non può. Gli Zebrahead hanno fatto esattamente questo: sbattere in faccia alla società ciò che poteva solo “guardare ma non toccare”.