Piero Armenti e quell’inno alla libertà chiamato New York, ma “Sognare senza fare nulla serve a poco”
“Ho capito che dovevo partire. Andare lontano, oltre qualsiasi luogo conosciuto. Non bastava Milano, neanche Londra o Parigi. Dovevo metterci un oceano di distanza tra me e la vita. L’ho capito all’improvviso, mentre ero sdraiato in veranda, con gli occhi al cielo e le stelle sopra di me. Dopo qualche secondo il risultato era davanti a me: ‘Complimenti, hai acquistato il tuo biglietto per New York’“.
E’ da poco uscito “Una notte ho sognato New York“, romanzo di Piero Armenti. Qualora nome e cognome non dovessero dirvi molto (il che, di fatto, garantirebbe che o vivete sulla Luna o non siete frequentatori dei social network) provate a cercare alla voce “Il mio viaggio a New York” e tutto vi sarà più chiaro. Lo urban explorer per eccellenza ha fatto della curiosità il suo credo e stile di vita, sempre alla costante ricerca di stimoli e piaceri da vivere e scoprire.
Sono giorni complessi, quelli che stiamo vivendo. La pandemia da Coronavirus ci ha costretti a rivedere la nostra vita, i nostri bisogni, le nostre necessità. E’ tutto enfatizzato, ingigantito da una percezione a tratti distopica, a tratti talmente surreale da farci pensare che nulla di tutto ciò sia vero. Quest’intervista si colloca in un momento storico in cui le incertezze sono tante, così come le paure, ma per dirla con Piero, dove c’è un problema, c’è spesso un’opportunità…
Se ripensi agli esordi, a quella notte in veranda a guardare le stelle e a sognare un futuro diverso da quello che sembrava già scritto all’interno del precariato italiano, quale è il primo sentimento che ti assale?
Voglio fare una premessa, ho scritto un romanzo e non un’autobiografia. Non posso nascondere però che è in larga parte ispirato a eventi che mi sono accaduti, a personaggi che ho incrociato lungo il cammino, incastrati all’interno di una fiction. Per tornare alla tua domanda, se penso alla mia storia di vita, allora sì, sono ancora sorpreso del mio percorso. Sono venuto in America alla ricerca di un’opportunità di vita, e l’ho trovata. Quando torno a Salerno, e mi addormento nella mia stanzetta di sempre, al mattino mi sveglio, mi guardo attorno e per qualche secondo penso: “Ma non è che è stato tutto un sogno?”. E invece no, vivo a New York da dieci anni.
New York come elogio al piacere della scoperta, New York come pianeta al centro del tuo universo, New York come simbolo di libertà. Per tutto ciò, però, c’è sempre un prezzo da pagare. Quale è stato il tuo?
Partire dall’Italia, attraversare un Oceano, andare in un paese lontano. Chi è andato via dalla propria patria sa che agli inizi non è facile. Ci sono umiliazioni, porte chiuse, momenti di malinconia. Ma non ti abbatti, e cerchi di trovare un modo per creare qualcosa d’importante, per realizzarti come persona. È stata dura, e se tornassi indietro non so se lo rifarei, perché emigrare è sempre una sofferenza che a volte soffochiamo e nascondiamo a noi stessi. Avessi avuto un’opportunità per realizzarmi in Italia, forse non sarei mai partito per New York. Ma quell’opportunità non c’è stata, e sono andato via. Ora mi sono abituato a questa città, e non potrei lasciarla.
Hai messo da parte le tue radici e la tua famiglia. Per un ragazzo meridionale, storicamente attaccato alla propria terra, non sarà mai facile una decisione simile. C’è stato un momento in cui le tue certezze newyorkesi hanno vacillato e hai pensato di aver fatto il passo più lungo della gamba?
Non ho mai pensato di tornare indietro, di lasciare New York per tornare a Salerno. Anche nei momenti più duri, non ho mai esitato. La ragione è semplice: amo la metropoli, la sua follia, la dissonanza, quel misto di ricchezza smodata e disperazione. Chi ama la metropoli alla lunga non reggerebbe psicologicamente in una piccola città di provincia. La nostalgia è come un canto consolatorio che ci serve per trovare forza all’estero, ma la verità è che gli italiani sono capaci di adattarsi ovunque, rimanendo italiani. La loro casa è il mondo, forse perché siamo un popolo di navigatori.
Tra le motivazioni che ti hanno spinto nella Grande Mela c’era quella della crisi dell’editoria, tutt’ora vigente. E’ un paradosso il fatto che il tuo romanzo esca nel pieno di una pandemia che ha bloccato l’uscita di migliaia di stampe in tutto il mondo. Ancora una volta, però, vai controcorrente e resti fedele al concetto che dove c’è un problema c’è un’opportunità…
Non mi sarei aspettato una pandemia, o meglio me la potevo anche aspettare, ma non immaginavo che si fermasse il mondo, e stessimo tutti chiusi in casa così a lungo. Il libro doveva uscire a fine aprile, ma abbiamo rimandato di qualche settimana. Meglio non andare oltre perché poi voglio scrivere un altro romanzo, e non vorrei si accavallassero.
Hai trovato difficoltà nel riportare su carta emozioni e ricordi? E’ rimasto fuori qualcosa che, invece, avresti voluto inserire?
Il romanzo mi ha dato la l’occasione per riflettere a fondo su New York, su come questa città possa cambiarti e spingerti all’estremo. Diventiamo degli ingranaggi di una metropoli troppo grande e troppo veloce per soffermarsi sul destino dei suoi singoli cittadini. Nel romanzo lo dico: se fossi scomparso nessuno se ne sarebbe accorto. New York è un immenso palcoscenico dove recitiamo il monologo che è la vita, nella speranza di avere qualcosa da dire. Io ho trovato l’America, il protagonista del romanzo chissà.
Sei alla costante ricerca di fare emergere ciò che di NY non si conosce. Quanto ti affascinano le sue incertezze, le sue inquietudini, il suo essere tutto e il contrario di tutto? Se c’è un lato oscuro di questa città, quale pensi sia?
Di New York sappiamo tutto. Nessuna città è stata così raccontata da scrittori, registi, artisti, giornalisti. È un luogo familiare, ci siamo cresciuti assieme. Non è il paradiso realizzato ovviamente, non tutti quelli che arrivano riescono ad avere la vita luminosa che avevano immaginato. Però qui un’occasione viene data a tutti, e chi la coglie cambia il proprio destino. Così come si va in alto, si cade anche in basso velocemente. Nessun risultato è per sempre, bisogna sempre combattere per occupare un pezzettino di questa terra. Oggi il tuo ristorante ha successo, domani chiudi per sempre. Non possiamo fermarci, e questo ci esalta ma alla può anche stancare.
Quale è la vera identità di una città che fa del cambiamento e del rinnovamento il suo marchio di fabbrica?
Questa città è nata perché gli europei volevano nuova terra in cui essere liberi, farsi una vita, senza persecuzioni. Per le stesse ragioni poi sono arrivati gli schiavi del sud, e sempre per le stesse ragioni continuano ad arrivare persone da ogni parte del mondo. Donne, gay, rifugiati politici. Questa è la casa di tutti, basta leggere cosa c’è scritto sul piedistallo della Statua della Libertà: “Mandatemi loro, i senzatetto, gli scossi dalle tempeste, e io solleverò la mia fiaccola accanto alla porta dorata”. Sono le parole della poetessa Emma Lazarus e sono un inno all’accoglienza, nessuna città ha qualcosa del genere.
A proposito di oscurità, il periodo che stiamo vivendo è drammatico e NY è tra le città più colpite al mondo. Cosa ti ha colpito di questa emergenza? Hai assistito a scene che ti resteranno per sempre impresse negli occhi?
New York ha vissuto tre crisi in questo millennio: l’undici settembre 2001, la crisi finanziaria del 2008, e l’uragano Sandy nel 2012. Questa è però una crisi diversa, una crisi del silenzio, del vuoto, del nemico invisibile. Non mi vengono in mente immagini particolari, se non una sensazione di soffocamento psicologico. La stanchezza per un evento che non riusciamo a capire fino in fondo, e che ha sconvolto le nostre vite e le nostre certezze. Questo è un momento oscuro che vogliamo lasciarci alle spalle il prima possibile, per tornare a vivere.
Come è stata la quarantena newyorkese? Quanto ha pesato la solitudine e l’assenza di contatto fisico in una città che, pur se abituata al distacco emotivo e alla frenesia, vive di rapporti ed esperienze?
Siamo stati parzialmente liberi. Ci è stato permesso di fare una passeggiata, una corsetta al Central Park. I ristoranti hanno fatto asporto e consegne a domicilio. Tecnicamente potevi anche andare a fare una cena tra amici, non era vietato. Ma tutti avevamo paura. New York si è svuotata, molti sono andati nelle seconde case, chi ha perso il lavoro se ne è tornato in famiglia. È diventata una città spettrale, e questa cosa pesa tantissimo.
Credi che la presidenza Trump stia gestendo bene questa crisi? Dall’esterno gli statunitensi sembrano profondamente spaccati circa l’attuale modus operandi, messo in discussione su più fronti...
Questa crisi ha colto di sorpresa tutti i capi di stato, tra cui Trump che all’inizio ha minimizzato, poi l’ha presa sul serio. Trump ha lasciato liberi gli Stati americani di decidere del lockdown, si è limitato a dare delle linee guida valide per tutti. Ogni Stato ha fatto da sé. New York, che ha avuto il picco di contagi, rimarrà chiusa più a lungo, la Georgia invece ha aperto da quasi un mese. Non me la sento di accusare Trump di nulla in questo momento, è ancora troppo presto. Ha detto cose ridicole, spesso è arrogante, però concretamente non ha fatto nulla di folle in questa circostanza, e quando New York ha avuto bisogno, ha inviato in aiuto una nave ospedale, l’esercito, i ventilatori al punto che il governatore Cuomo l’ha anche ringraziato. Bisogna lasciare che questa vicenda storica sedimenti, che le nostre emozioni si plachino, per avere uno sguardo obiettivo su tutta la faccenda.
The Walk Of Fame è un magazine incentrato sul mondo dell’immaginario collettivo. Se dovessi descrivere NY con una canzone, con un libro, con un film, con uno spettacolo, quale sceglieresti?
Sceglierei Il giovane Holden di Salinger, di cui posseggo anche la prima edizione originale. Non importa l’età, a New York siamo tutti adolescenti smarriti lungo il cammino, e cerchiamo faticosamente la strada
In chiusura, che peso hanno i sogni nella tua vita?
L’unico peso che devono avere i sogni è quello di farti muovere le chiappe, e darti da fare per realizzarli. Sognare senza far niente serve a poco.