La formica sghemba – gli equilibri spezzati raccontati nel nuovo romanzo di Paolo Romano
Un racconto ironico, crudo e intenso sulla rottura di flebili equilibri familiari riportati alla memoria da un padre che, come in una seduta psicoanalitica, rivive in maniera tragicomica l’eternità d’istante della separazione, trovandosi nuovamente a convivere con la propria natura “sghemba”.
Ciao, Paolo, e benvenuto su The Walk Of Fame. Come sei riuscito a conciliare il mondo del giornalismo a quello della narrativa?
A volte me lo chiedo anche io… In effetti, nonostante l’apparenza, si tratta di due linguaggi molto differenti tra di loro; con il giornalismo c’è un patto di fiducia con il lettore, che è quello di raccontargli fatti e atti concreti, documentabili senza esprimere alcuna posizione o giudizio al loro riguardo. C’è tutta una liturgia di rispondere in primo luogo alle domande “base” del chi, quando, come, perché quella notizia è diventata tale e questo ha un riflesso nella scelta lessicale. Il ricorso solo eccezionale ad aggettivi, per esempio; una punteggiatura chiara e corretta che aiuti a leggere il pezzo; il ricorso a periodi possibilmente brevi, senza esagerare in subordinate. Ecco, tutto questo con l’invenzione narrativa e la scrittura di un romanzo non solo non c’è, ma deve essere scardinato alle sue basi. Qui il patto di fiducia con il lettore è l’onestà intellettuale con la quale t’approcci a un racconto che tutti sanno da subito essere fittizio. La libertà diventa il nuovo motore della tua credibilità, quindi non esistono confini di semantiche vietate, circuiti espressivi sconsigliati. Anzi! E’ l’occasione privilegiata per portare la lingua, il linguaggio un passo più in là.
Quali sono i modelli letterari che hanno ispirato la composizione del romanzo?
L’idea della psicanalisi come strumento di indagine narrativa viene certamente dalla letteratura europea, per una volta, diciamolo, soprattutto italiana che va dalla fine dell’Ottocento agli anni Trenta. Capuana, Pirandello, Svevo hanno dimostrato in una zona d’empireo inarrivabile, più che di eccellenza, come le teorie freudiane fossero un’occasione unica per girare e rigirare personaggi, storie e intimità. Invece, da un punto di vista di “scardinamento” del racconto, mi sento debitore – perché ho letto soprattutto loro in questi ultimi quindici anni – della letteratura americana postmoderna, quella che va da Pynchon a Foster Wallace, passando per De Lillo. Hanno un’intensità di scrittura, fondata sulla libertà e sulla mescolanza di realtà diverse e sfalsate, assolutamente ammirevoli, incredibili. Così, l’uso di digressioni, note a margine, incastri, diventa un gioco letterario che chiama in causa direttamente le competenze del lettore, lo sfida, pure se in modo giocoso e ironico.
Da giornalista affermato, ritieni sia stato difficile esporsi così in profondità?
Certamente mi piace mettermi in gioco, metterci la faccia; evidentemente il protagonista di questo romanzo ha qualche riferimento autobiografico e del resto non esiste narrativa che non si basi sulle esperienze di chi racconta, è anche una questione di onestà. Poi, la scelta della prima persona (azzardatissima e pericolosa) viene, anche lei, da quel genere che sta prendendo sempre più piede, con termine orribile si chiama “autofiction” ed è, in fondo, un gioco. Ti sembra che a raccontare son io, ma poi hai prove evidenti che non posso esser davvero io e allora perdi un po’ la bussola, devi valutare nuovamente l’attendibilità di quel racconto da un altro punto di vista; alla fine sei in un labirinto dove la domanda di partenza (autobiografia o no?) perde di senso. Però, ripeto, ho sempre avuto un approccio sfrontato, forse provocatorio, verso la realtà, se non ti esponi non rischi, ma non godi di nessun sapore o colore dell’esistenza.
In questo romanzo, sono presenti dei rimandi al mondo della musica, una delle tue grandi passioni. Puoi parlarcene?
La musica è la mia vita da quando ho memoria, sono cresciuto avendola sempre nelle orecchie, poi l’ho studiata, insegnata e praticata tanto. Inevitabile che non ci sia parte delle mie giornate e della mia vita che non possa essere raccontata attraverso una propria colonna sonora. Nel racconto è stato quindi facile utilizzarla come strumento d’accesso preferenziale ai ricordi, alle ricostruzioni. Ha un po’ la funzione che nella Recherche di Proust hanno le madeleine, il sapore dei biscottini: mette in moto le storie, le fa muovere e, se ci sono riuscito, gli da ritmo. Quindi, alle molte musiche citate, corrispondono atmosfere diverse e linguaggi diversi in base al mood evocato e poi, diciamoci la verità, mi piaceva l’idea di poter incuriosire il lettore e fargli sentire brani, che ritengo assolutamente straordinari e fondamentali!
Credi che l’immagine evocativa della formica sghemba possa rappresentare una metafora delle condizioni dell’uomo contemporaneo? Se sì, perché?
Più che dell’uomo contemporaneo, dell’uomo e basta. Ci riferiamo all’attualità del nostro tempo perché è solo da relativamente poco che si è entrati a fondo nell’indagine delle fratture interiori, ma è una faccenda che appartiene, più probabilmente, alla natura umana da sempre e convive nello sviluppo razionale della specie. Se ci distinguiamo dagli animali per il porci domande, ci distinguiamo anche perché a quelle domande spesso non sappiamo rispondere e questo causa una scissione, una sofferenza. L’immagine della formica viene da un passaggio di Shopenauer in cui racconta di questa curiosa specie australiana che, se divisa in due, mette in competizione la parte della testa con quella del corpo: combattono finché entrambe non soccombono. Probabilmente una roba un po’ pulp da Tarantino … ma certamente efficace per rappresentare il tipo di lotta quotidiana che tutti affrontiamo, specie quando restiamo soli con noi stessi e non abbiamo i veli utili delle relazioni sociali, che impongono ritualità e cliché condivisi per diventare comuni.
Ritieni che i “vinti dalla vita” possano avere una possibilità di riscossa, magari anche al di fuori del racconto letterario?
No. Su questo mi dispiace essere lapidario e poco confortante; quello che vedo è il dilagare di un’apparenza costruita sull’immagine di successo e di felicità, insieme ad un volto scuro e digrignante di rabbia che sta definitivamente lacerando il tessuto sociale, i rapporti civili, solidali, tolleranti tra le persone. Questa guerra, la continua contrapposizione si fondano sull’ignoranza e sulla presupposizione che tutti possano far tutto, trascurando completamente l’aspetto dello studio, dell’approfondimento, della competenza. Io posso capire l’altro solo se mi do il tempo giusto, interiore ma anche di conoscenza, per farlo. Se non ci sono questi elementi di base, e non ci sono, chi “non ce la fa”, chi è vinto, appunto, è destinato a restare sempre più indietro, a non trovare mai la grammatica delle relazioni, senza la quale non c’è margine di riscossa possibile.