Veleno: podcast, libro, serie tv. L’inchiesta di Pablo Trincia su “i diavoli della bassa modenese”
“Guardando quelle videocassette ho come la sensazione di vedere un bicchiere pieno d’acqua in cui versi delle gocce d’inchiostro. L’acqua diventa nera. Non si può tornare indietro”. (Pablo Trincia).
È il 2014 e il giornalista italiano Pablo Trincia, classe 1977, conosciuto anche in ambito televisivo per la partecipazione a trasmissioni quali “Le iene” e “Chi l’ha visto”, è intenzionato a dare vita a un podcast sul tema del satanismo. Lo stesso anno si imbatte in articoli che parlano di casi, avvenuti tra il 1997 e il 1998 in Emilia Romagna, narranti le vicende di sedici bambini che avrebbero confessato di essere stati abusati e costretti a partecipare a riti satanici in alcuni cimiteri della zona per mano dei genitori e di esterni. Questi carnefici presero il nome di “Diavoli della bassa modenese”.
Tutti i bambini vennero allontanati dalle famiglie e non vi fecero mai più ritorno.
Trincia decise di avviare un’inchiesta per dissotterrare questa terribile storia. Si recò nei due paesi attorno ai quali si svilupparono i fatti, Mirandola e Massa Finalese (entrambi in provincia di Modena). L’intento era quello di intervistare i genitori e i bambini, ormai adulti, protagonisti della macabra storia. Lo scopo, infatti, era quello di far luce su un’indagine che effettivamente non si concluse mai del tutto, complici innumerevoli passaggi mancanti e zone d’ombra.
Con la collega giornalista Alessia Rafanelli, all’epoca redattrice del programma “Le Iene”, gettò le basi per la delicata inchiesta. Sulla scia della stessa nascerà, in un secondo momento, il podcast a puntate, andato in onda dall’ottobre 2017 sul sito de “La Repubblica”, e poi, nel 2019 il libro “Veleno – Una storia vera”, scritto dallo stesso giornalista. Infine, dal 25 maggio di quest’anno, su Amazon Prime Video è andata in onda la serie-documentario di cinque puntate ispirata a quanto sopra descritto.
LE ACCUSE AI “DIAVOLI DELLA BASSA MODENESE”?
Siamo nel 1997 a Mirandola. Federico Scotta, all’epoca ventiduenne, viveva con la moglie di origine thailandese Kaempet e i loro due figli. Una mattina di quell’anno ricevette una visita della polizia con mandato di perquisizione. I coniugi vennero prelevati dall’abitazione e portati in commissariato. Il tribunale, gli fu comunicato, predispose l’allontanamento dei due figli. La coppia, una volta uscita dal commissariato, incontrò Francesca, la vicina di casa. La donna, la stessa notte, visse la stessa storia.
Come in un’indagine epidemiologica si individua il paziente zero, anche in questa indagine si è potuti risalire al “bambino zero”, il minore che ha dato il via a tutta la vicenda e che, come tra poco si capirà, è strettamente collegato a quanto accaduto agli Scotta e alla vicina di casa Francesca.
Il “bambino zero” è Dario. Viveva a venti chilometri da Mirandola, a Massa Finalese. Cresciuto in una situazione di estremo disagio. Figlio di una delle famiglie più povere del paese, i Galliera. Venne però preso a cuore da una famiglia del posto decisamente più benestante, i Panzetta, che lo accolsero in casa. La sua famiglia appoggiò questa situazione, consapevole di non poter garantire un ambiente idoneo allo sviluppo psicofisico del bambino.
Ma questa “adozione fai-da-te” durò poco e in breve tempo i servizi sociali si presentarono alla porta dei Panzetta per prelevare il minore e condurlo in una struttura per accudirlo (il “Cenacolo Francescano” di Reggio Emilia), dove rimase in attesa di una nuova famiglia. All’epoca Dario aveva otto anni e i genitori adottivi iniziarono a preoccuparsi per le reiterate manifestazioni di disagio del bambino. “Era sofferente e tendeva spesso a isolarsi. Aveva il terrore di tornare dai genitori naturali“, affermò la nuova madre adottiva.
Il bambino iniziò così le sedute con una psicologa che segnalò i fatti alla magistratura. Fu sottoposto a una serie di interrogatori dove crollò “svuotando il sacco”. Svelò di aver subito abusi da parte del padre e del fratello biologico, ma anche da persone esterne. Nonostante non furono riscontrati palesi segni di violenza compatibili con quanto dichiarato, il padre, la madre e il fratello di Dario vennero arrestati.
Al minore vennero, inoltre, mostrate delle fotografie di bambini. Riconobbe Elisa (figlia degli Scotta) e Marta (figlia di Francesca, vicina di casa degli Scotta). Il puzzle iniziava a prendere forma. Federico Scotta e Francesca si proclamarono innocenti, talvolta sui giornali o in proteste fuori dalla Questura di Mirandola. “Noi con la pedofilia non c’entriamo”, si poteva leggere su uno dei cartelloni da loro scritti. Elisa e Marta furono sottoposte a visite mediche per capire se l’accusa di violenza sessuale fosse fondata. Dalle stesse il medico legale riscontrò segni fisici riconducibili ad abusi.
A seguito di queste accuse, Francesca, la madre di Marta, si tolse la vita.
L’INIZIO DEL PROCESSO
Nel gennaio del 1998 ebbe inzio il primo processo che durò in tutto tre mesi. Le accuse contro i Galliera furono: abusi sul figlio Dario e l’organizzazione di festini. In questi eventi vennero anche scattate delle foto (vendute in cambio di denaro) e sul banco degli imputati Federico Scotta dovette rispondere all’accusa di aver fatto partecipare anche i propri figli. Tutti loro si proclamarono innocenti fino alla fine. Nelle settimane e nei mesi successivi, “il bambino zero” rivelò nuovi, agghiaccianti, particolari. Disse di abusi avvenuti nei cimiteri. In concomitanza a ciò anche un’altra bambina si aprì a confidenze con un’altra psicologa, svelando le stesse brutali esperienze vissute da Dario.
Poco dopo la fine del primo processo, sotto ai riflettori finirono altre due famiglie. I Giacco, genitori di sei figli che abitavano nello stesso condominio dei Galliera, e i Morselli che vivevano in una cascina a Massa Finalese. I rispettivi figli dichiararono, dopo vari colloqui avvenuti con gli psicologi, di riti satanici organizzati nei cimiteri dove venivano spogliati e uno alla volta, condotti in una piccola stanza. Gli stessi medici del primo processo vennero nuovamente coinvolti per le perizie del caso. L’esito delle visite confermò i sospetti di violenza. Inevitabile l’allontanamento dei minori dalle famiglie.
Dopo un anno di interrogatori, una delle bambine fece il nome del presunto personaggio a capo dei riti, tale Don Giorgio Govoni, parroco di Massa Finalese. Govoni si dichiarò innocente e al suo fianco si schierò l’intero paese che non credeva in nessun modo alle accuse contestate. La comunità di Massa Finalese reagì supponendo un errore giudiziario. Si scagliò contro i servizi sociali, portando avanti numerose manifestazioni.
Dopo il primo processo, conclusosi con la condanna di sei persone, il secondo si svolse a porte chiuse. Gli imputati furono diciassette. L’intenzione dei pubblici ministeri era quella di dimostrare i collegamenti tra i fatti contestati. Ancora una volta cimiteri, tombe dissotterrate, uomini con maschere da diavoli e sevizie raccapriccianti costituivano l’oggetto dell’inchiesta. Le domande si rincorrevano, la più ricorrente era “com’è possibile che nessuno si è mai accorto di nulla?”. Mancavano effettivamente degli elementi oggettivi e non è mai stata riscontrata nessuna traccia di tombe dissotterrate o di figure avvistate nei cimiteri.
I bambini potrebbero essere stati in qualche modo suggestionati?
La difesa asserì che, qualora i bambini avessero davvero subito le violenze descritte, sarebbero certamente morti. L’unica visita medica effettuata, inoltre, non era sufficiente per accertare le molestie e le violenze subite. Iniziò a serpeggiare l’ipotesi che tutti i fatti narrati dai minori fossero derivanti da un inquietante, quanto grottesco, errore. Nel maggio del 2000 Don Giorgio Govoni morì d’infarto. Gran parte della comunità arrivò quasi a considerarlo un martire, ritenuto innocente fino alla fine dei suoi giorni. Federico Scotta, invece, fu condannato a undici anni di prigione da scontare presso il carcere di Sant’Anna a Modena.
Il terzo processo vide per protagonisti Lorena Morselli e il marito Delfino Covezzi. Anche a loro, nel frattempo, vennero portati via anche i quattro figli. Verranno poi assolti nel 2010. Intanto la famiglia adottiva di Dario, i Panzetta, continuarono a raccogliere prove per dimostrare l’errore giidiziario.
Fu interpellata la dottoressa Giuliana Mazzoni, psicologa esperta nelle dinamiche dei falsi ricordi e di distorsione della realtà. La sua diagnosi fu più che altro un’accusa verso la dottoressa Donati dei servizi sociali. Costei fu accusata di aver suggestionato i bambini contribuendo alla creazione di falsi ricordi.
Dopo la dichiarazione della dottoressa Mazzoni, nel 2001 la Corte d’Appello smontò il secondo processo.
“I bambini si sono inventati tutto“. Il verdetto, ambiguo, sosteneva che gli eventi a cui dare credibilità fossero solamente quelli avvenuti in ambito domestico e non quelli nei cimiteri o per mano di terzi.
IL PODCAST DI PABLO TRINCIA
Dopo essersi documentato a lungo sulla vicenda, il giornalista Pablo Trincia avviò la sua l’inchiesta. La prima persona con cui parlò fu Silvio Panzetta. L’uomo che anni prima aveva accolto Dario e che, insieme alla moglie, aveva collezionato tantissimo materiale. Trincia analizzò le videocassette dei colloqui tra bambini e gli psicologi, rendendosi conto che tutto ruotava attorno ai racconti dei bambini. Il giornalista incontrò anche l’avvocato che all’epoca rappresentava il Parroco di Massa Finalese, Don Giorgio Govoni. Il legale descrisse un vero e proprio intreccio capace di estendersi da Los Angeles al Texas, dalla Francia all’Italia. Il cosiddetto “panico satanista” o “abuso rituale satanico”.
La prima volta che si parlò di questo fenomeno era in merito a un libro uscito nel 1980, “Michelle Remembers”, scritto da Michelle Smith insieme al suo psichiatra di allora. Le affermazioni contenute nel libro rimandavano ad abusi da lei subiti, contornati da rituali satanici. Il testo condusse a un aumento di panico morale dell’abuso di rituale satanico. Dopo la pubblicazione del libro, spuntarono fuori casi analoghi in ogni parte del mondo, come ad esempio il “Caso Keller” (Texas, 1991) scoperto dopo una confessione da parte di una bambina a seguito di presunti maltrattamenti e abusi subiti all’interno dell’asilo diretto dai coniugi Keller. Numerosi altri bambini riportarono la stessa versione affermando le stesse medesime accuse della prima bambina.
“Lo stesso modello può essere applicato ai casi della bassa modenese? Come fanno questi bambini a raccontare eventi così brutali e intanto ridere?”, si domanda Pablo Trincia.
Le risposte possono arrivare solo dai diretti interessati e così Trincia va alla ricerca dei bambini, ormai adulti per provare ad ottenere qualche risposta.
Davanti a loro trovano un muro, nessuno vuole parlare. «Non voglio saperne niente». «Io mi ricordo degli abusi di mio padre». Queste sono le frasi con cui le vittime liquidano Trincia e la collega.
Dopo vari tentativi riescono a parlare con Dario, il protagonista che ha dato il via alle macabre scoperte.
«Non sono nemmeno più sicuro di quello che è successo. Gli psicologi hanno questo potere di far dire ai bambini quello che vogliono». Così si esprime il ragazzo, fortemente provato.
Pablo Trincia e Alessia Rafanelli, come aveva fatto tempo prima la Dottoressa Mazzoni, iniziano a focalizzarsi sulla responsabilità dell’adulto, provando a non dare per scontato il fatto che i bambini dicano per forza di cose la verità.
«Come venivano condotti gli interrogatori nei confronti dei bambini? Insistere e chiedere continuamente la stessa cosa per ottenere una risposta è un atteggiamento che può portare a parlare di qualcosa che non è mai avvenuto davvero?». Si domanda Trincia che, durante l’analisi di uno dei filmati di un interrogatorio avverte una chiara forma di insinuazione nei confronti della minore da parte della psicologa. «In questo video non si sente la minore che parla di abusi, ma la psicologa sembra che per forza di cose, cerchi di farglielo confessare. Non è questa una forma di violenza?».
La Dottoressa Mazzoni, già da tempo, si era dichiarata contraria a questa forma di approccio che molte psicologhe del caso misero in atto. «Non bisogna forzare i bambini a dare una risposta, non bisogna essere insistenti. In questo modo si rischia di influenzare la risposta. Questa forma di empatia eccessiva, da parte di questi psicologi, è sbagliata e manca totalmente la neutralità».
È il 23 ottobre 2017 e il podcast “Veleno” di Pablo Trincia è fuori.
Come si può immaginare, quando si intraprende un lavoro di questo tipo, le reazioni che ne derivano sono di ogni genere.
A Trincia vengono lanciate accuse di poca delicatezza nell’aver riaperto una ferita del genere, non pensando minimamente al dolore inflitto nuovamente alle persone che sono state protagoniste per più di vent’anni di questa terribile vicenda.
Addirittura sette ragazzi, vittime della storia e ormai adulti, creano un comitato per andare contro all’inchiesta del giornalista. «La nostra voce ha un peso. Trincia ha presentato una versione della storia che non è la verità».
Due mesi dopo l’uscita di “Veleno”, Trincia e la collega vengono contattati dai genitori. L’intento era organizzare un incontro per parlare e per essere finalmente ascoltati.
Ne uscì fuori una riunione a cui parteciparono oltre 100 persone. Poco tempo dopo Trincia ebbe contatti con un’altra delle vittime. Simona, la quale più di vent’anni prima era stata sottratta alla madre Daniela, nonostante non l’avesse mai denunciata e non avesse mai menzionato gli abusi. «Io nei cimiteri non ci andavo. Non è mai successo». La bambina all’epoca dei fatti era stata definita “omertosa” dagli psicologi che l’avevano in carico.
Il giornalista raccolse, inoltre, anche la confessione di Marta, l”ennesima presunta vittima. «Era la psicologa che mi raccontava ciò che mi era stato fatto. Io non mi ricordo nulla. Le psicologhe mi hanno messo spesso in bocca parole che io non ho detto. Ma com’è possibile che altri bambini abbiamo detto le stesse cose che ho detto io?».
Entrambe le ragazze si trovarono comunque concordi sul fatto che gli incontri con la psicologa, la Dottoressa Donati, erano un incubo e una tortura. Accuse sempre respinte.
Il 12 novembre del 2018 uscì l’ultima puntata del podcast di Pablo Trincia, intitolata “Una notte lunga vent’anni”, a cui seguì un articolo di protesta e una raccolta firme sul sito dell’Associazione “Rompere il silenzio”, legata al centro studi “Hansel e Gretel” di Claudio Foti, psicanalista affermato conosciuto per il suo “metodo empatico”. Lo psicanalista si espose in questo modo: «Io credo che Veleno risponda al bisogno di rassicurarci che l’abuso sessuale sui bambini non sia così diffuso. L’operazione di Trincia è debole ed è a senso unico. Se ti schieri in questo modo sei a favore dei pedofili».
IL CASO BIBBIANO: «È STATO POSSIBILE ARRIVARE ALLA VERITÁ GRAZIE A VELENO»
Nel 2019 scoppiò il “caso Bibbiano”. Il paesino dell’Emilia venne sconvolto da sconcertanti scoperte i cui protagonisti sono assistenti sociali e psicologi. Tutti accusati di aver creato falsi ricordi nei bambini con lavaggio del cervello e addirittura scosse elettriche.
All’interno di questa vicenda si trovò anche il Dottor Claudio Foti, che viene arrestato.
I servizi sociali, usciti malconci dalle aule di tribunale, furono messi alla gogna dai bibbianesi convinti che «tutto ciò è stato possibile grazie a Veleno».
«Il caso di Bibbiano presenta numerose connessione con il caso di Massa Finalese e di Mirandola» – disse Maurizio Tortorella, giornalista vicepresidente di “Panorama”– «sembra la stessa metodologia usata nel caso della bassa modenese. Nelle registrazioni degli incontri psicologo-bambino si assiste anche qui ad una pressione psicologica verso i minori, per spingerli a raccontare cose, addirittura in questo caso, travestendosi da lupi».
La vicenda narrata nella docuserie “Veleno” si conclude così. Senza una fine né con una risposta certa.
Senza dubbio, Pablo Trincia ha condotto un’ottima inchiesta. Un eccellente prodotto pieno di spunti interessanti su cui riflettere.
Il giornalista ha condotto un lavoro estremamente delicato e carico di pericoli, in cui pochi avrebbero avuto il coraggio di cimentarsi. Obiettiva e più neutrale possibile, l’indagine si basò su fatti raccontati dai diretti interessati, protagonisti della triste vicenda, tramite interviste e dichiarazioni passate e presenti.
Scegliendo, soprattutto, di dare voce anche a chi, per più di vent’anni, non l’ha avuta: i genitori. Carnefici? Vittime? Risposta non c’è. Ma come l’ex “iena” afferma «è importante guardare le cose, soprattutto casi di questa rilevanza, da ogni prospettiva possibile».
«Una volta una psichiatra mi ha detto una cosa che non mi dimenticherò mai: con un abuso sessuale realmente accaduto si può imparare a convivere. L’abuso sessuale immaginario, invece, crea dei fantasmi nella testa di un bambino e con i fantasmi non si vince mai». Conclude Pablo Trincia.