Otranto, la città degli 800 martiri
Era il 28 luglio 1480 quando la flotta turca, guidata dal sultano Maometto II, sbarcò ad Otranto. La bella città salentina, oggi meta di turisti e al centro delle mire (ormai sopite) di Briatore, divenne fulgido esempio di coraggio.
Gli abitanti, in netta inferiorità numerica (circa 6000 contro più di 20.000) e disarmati, decisero di difendere non solo la loro città, ma anche la loro dignità e la loro identità contro i turchi. Difatti rifiutarono di rinnegare la loro religione, la loro patria e la loro storia, preferendo la morte.
Gli ottomani, la cui imponente flotta era comandata da Gedik Ahmet Pascià, inizialmente puntarono Brindisi ma a causa di una tramontana si ritrovarono nella città degli idruntini. La città era piccola e mal fortificata cosicché i turchi pensarono di trovare vita facile. Però non avevano fatto i conti con gli indegeni che non avevano intenzione di lasciare le proprie case e scappare. Dopo le iniziali scaramucce Akhmet inviò un primo messaggero agli otrantini per proporre l’abbandono della città senza battaglia a patto che abiurassero pubblicamente la loro fede e la la loro cultura. L’ambasciatore riuscì per un pelo a scappare dall’ira della popolazione. Sorte peggiore toccò al secondo messaggero che non riuscì neanche ad avvicinarsi ad Otranto in quanto fu colpito da una freccia scagliata dalla città.
Seguirono 2 settimane di battaglia che videro un’eroica resistenza degli abitanti di Otranto che, guidati da Ladislao De Marco, si riunirono nella cattedrale giurando di resistere fino all’ultimo. E così fu. L’11 agosto del 1480 i turchi riuscirono però ad entrare nella fortezza e a massacrare la popolazione. Gli uomini furono torturati e uccisi. I bambini e le donne violentate e portati in Oriente come schiavi. Ai pochi superstiti fu data l’ultima possibilità di rinnegare la loro fede e il loro essere. La risposta fu ovviamente negativa. Preferirono la morte anziché abbassare la testa al nemico. Testa che fu però tagliata dai turchi a questi 800 uomini sul colle della Minerva, dopo averli legati e trascinati fino in cima.
Il loro sacrificio è tutt’ora visibile nella Cappella dei Martiri all’interno della Cattedrale di Otranto dove le loro ossa sono conservate. Sono ancora lì per essere un eterno esempio di onore, di forza, di vigore.
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Tra questi 800 martiri si ricordano le gesta di Macario Nachira, Antonio Pezzulla detto “Primaldo”. Quest’ultimo prima di morire si girò verso i suoi concittadini e disse “Fratelli miei, sino oggi abbiamo combattuto per defensione della patria e per salvar la vita e per li signori nostri temporali, ora è tempo che combattiamo per salvar l’anime nostre per il nostro Signore, quale essendo morto per noi in croce conviene che noi moriamo per esso, stando saldi e costanti nella fede e con questa morte temporale guadagneremo la vita eterna e la gloria del martirio”.
Va anche ricordato Nicolò Picardi, nobile della città calabrese di Paola, distintosi in battaglia e stimato anche dai soldati nemici. Morì piuttosto che rinnegare la fede e la patria. Di lui scrisse così Isidoro Toscano: “Era questo Cavaliere per nascimento illustre, nepote di Sir Bernardo Cappellano di Fernando re di Napoli, di rare parti ed amabilissimi costumi, nel valore delle armi valoro guerriero, e non meno nella pietà, e zelo famoso appo tutto il Regno, e perché era molto ben conosciuto dal Re, il fè Capitano di cavalli della sua Guardia, ma dopo lo mandò in compagnia del Duca di Calabria suo figliolo, all’assedio di Otranto, già posseduto dai barbari ad onta dei cattolici, Quando il buon Nicolò si vide sotto le mura della città, incredulità più di ircana tigre, cominciò fortemente a combattere contro i nemici”.