Onore, acciaio e leggenda nella storia che ha ispirato “L’ultimo samurai”
Dopo Glory – Uomini di gloria e Vento di passioni, Edward Zwick ci riprova e nel 2003 si misura nuovamente con un film in costume, andandosi a collocare, col suo lavoro più ambizioso, in quello spicchio di cinema che mescola storicità e leggenda. Avvalendosi di un cast di prim’ordine nel quale spiccano, tra gli altri, Tony Goldwyn (Ghost, Il rapporto Pelican, In fuga per la libertà), Timothy Spall (Quadrophenia, Il tè nel deserto, Harry Potter, Il maledetto United) e Hiroyuki Sanada (Ring, Wolverine – L’immortale, Mortal Kombat), Zwick realizza un’opera godibile, frutto dell’immenso lavoro filosofico-documentale svolto insieme a Tom Cruise, che de L’ultimo samurai è il personaggio principale.
Il protagonista di Top Gun, Rain Man ed Eyes Wide Shut è il capitano Nathan Algren, reduce del Settimo Cavalleria al comando del generale Custer. Tormentato dalle atrocità commesse dai soldati nei confronti degli indiani d’America, Algren accetterà di addestrare le truppe dell’esercito regolare nipponico, impegnate nel contrastare le incursioni dei samurai, capeggiati dal carismatico Katsumoto (Ken Watanabe) e contrari alle politiche di ammodernamento attuate dall’imperatore Meiji. Caduto nelle mani dei rivoltosi, Algren imparerà a conoscere ed amare la cultura dei samurai, arrivando ad abbracciarne la filosofia zen e il codice di condotta del Bushido.
A raccontarla così sembrerebbe quasi di ritrovare il canovaccio del “Salvatore Bianco” che si erge a capopopolo delle minoranze, o una scopiazzatura dei grandi classici in cui l’eroe si schiera coi più deboli, vedansi Balla coi lupi (1990) e L’ultimo dei Mohicani (1992). L’ultimo samurai, però, è un film che gode di una propria dignità, che si mostra girato con abilità e sicurezza, e che emana un sentore d’avventura ed eleganza. Edward Zwick sposa, sì, il filone epico-romantico figlio degli anni ’90, ma realizza un sincero e sentito omaggio al cinema di Akira Kurosawa, evitando l’imbarazzo di scadere nel plagio.
IL FILM TRA STORIA E LEGGENDA
Il regista trova un valido alleato, sia nelle musiche composte da Hans Zimmer ma soprattutto nel fattore leggenda che dà vita alla macchina del film. Tanto il capitano Algren/Cruise quanto Katsumoto/Watanabe, infatti, trovano ispirazione da due condottieri realmente esistiti, così come le battaglie prendono spunto da rivolte effettivamente documentate. Ne L’ultimo samurai, quindi, Zwick attinge a piene mani dalla storia, stravolgendone le connotazioni temporali, e ricollocandole nelle rivolte del Giappone feudale.
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Piccolo preambolo: non che la ricostruzione storica de L’ultimo samurai sia inaccurata. Semplicemente nasce da una commistione di due eventi ben distinti tra loro. Da una parte la Guerra Boshin, combattuta nella metà del XIX secolo fra lo shogunato Tokugawa, erede di una millenaria politica conservatrice, e le forze imperiali di Meiji, strenue sostenitrici di una politica di rinnovamento e di apertura all’Occidente. Dall’altra, la ribellione di Satsuma, scontro che vide opposti gli ex samurai alle forze imperiali giapponesi nel 1877.
Il personaggio interpretato da Tom Cruise, nello specifico, non è basato su di un vero soldato americano, ma piuttosto su un ufficiale dell’esercito francese agli ordini di Napoleone III, tal Jules Brunet, che fu inviato in Giappone per svecchiare le tecniche militari dei samurai, fedeli all’uso della katana, rimanendo coinvolto proprio nella Guerra Boshin. Esattamente come il capitano Algren, Brunet finì con lo sposare la causa ribelle, nonostante gli “ultimi samurai” fossero inferiori per numero ed armamenti alle truppe imperiali. Lo scontro vide la disfatta dei riottosi, con Brunet che, sopravvissuto agli scontri, riuscì a tornare in patria, dove fu accolto come un eroe. Ancora oggi, la figura di Brunet è ricordata come simbolo di onore, coraggio ed apertura alle differenti culture.
La figura di Katsumoto, invece, si basa sull’iconico samurai Saigō Takamori che nel 1877 si schierò con le forze ribelli, prendendo parte alla ribellione di Satsuma e trovando la morte nel corso della stessa. Proprio questo evento, che di fatto segnò la fine della cultura dei samurai, ha ispirato la battaglia finale del film. Una personalità affascinante, quella di Takamori, a cui Ken Watanabe ha saputo conferire poesia e carisma.