Nove anni senza Amy Winehouse: a volte la vita stessa è “una mano perdente”
Il 23 luglio del 2011, al Club dei 27 si aggiunse un nuovo componente. Amy Winehouse, astro nascente della musica soul e jazz, venne ritrovata priva di vita nel suo appartamento al numero 30 di Camden Square, Londra. Dopo le prime indagini preliminari, che non accertarono da subito l’esito della morte, tre mesi dopo, precisamente il 27 ottobre, vennero resi noti gli esami tossicologici che rilevarono come la causa del decesso fosse da attribuirsi a una presenza eccessiva di alcol. Ciò determinò quel fenomeno chiamato “stop and go“, col quale si descrive uno straordinario consumo di sostanze a base alcolica dopo un un lungo periodo di astinenza da esso.
Il mondo della musica perdeva una delle sue esponenti giovanili più talentuose che, nonostante il poco tempo avuto a disposizione, ha lasciato traccia indelebile nella scena internazionale degli ultimi quindici anni. Andò ad aggiungersi a quel dannato Club dei 27, facendo compagnia a leggende come Jim Morrison, Jimi Hendrix, Brian Jones, Janis Joplin, Kurt Cobain. Con loro ha condiviso una vita sregolata, segnata da abusi ed eccessi che hanno contribuito ad alimentarne il mito senza, però, mai macchiare la capacità di produrre arte.
Che la cantante facesse abuso di sostanze stupefacenti e che consumasse una quantità eccessiva di alcol era cosa nota. Fu lei stessa ad ammetterlo, circa cinque anni prima della morte, aggiungendo, inoltre, che ulteriori sofferenze le erano arrecate da disturbi alimentari che sfociavano in anoressia e bulimia. Un mix di fattori che avrebbe distrutto chiunque, lacerando dall’interno quegli equilibri psico-fisici già messi a dura prova da un ambiente musicale estremo ed estremizzante, dove trovare la propria collocazione, accettarla e viverla in serenità è quasi sempre impossibile.
Il singolo “Rehab” non è solo uno tra i più conosciuti e apprezzati, ma è altresì una sorta di testamento emotivo e spirituale dell’artista, dissacrante e al tempo stesso iconico di volontà contraddittorie che l’hanno afflitta nell’ultima fase della sua vita. Un percorso di disintossicazione che, tra alti e bassi, ha sfiancato Amy Winehouse.
They tried to make me go to rehab, But I said, “No, no, no”
Yes, I’ve been black, But when I come back, you’ll know, know, know
I ain’t got the time, And if my daddy thinks I’m fine
He’s tried to make me go to rehab, I won’t go, go, go
“Frank” (2003), “Back To Black (2006), “Lioness: Hidden Treasures (2011, postumo) sono gli unici album che è riuscita a produrre. Tre piccole perle discografiche in cui la meravigliosa voce della cantante inglese si manifesta in tutta la sua classe ed eleganza, in tutta la sua potenza e versatilità. Esaltante, dinamica, magnetica. Tanto carismatica nell’approccio al microfono, quanto fragile nella vita privata. A volte anche la vita può essere un “loosing game” – una mano perdente, ma anche un gioco che, a differenza dell’amore raccontato in tante sue canzoni – vale sempre la pena di giocare.