No Time to Die: il commiato di Daniel Craig è la sentimentale chiusura di un cerchio perfetto
Quando nel 2006 i produttori decisero di affidare a un allora semisconosciuto Daniel Craig (nonostante il già corposo curriculum) il ruolo di James Bond, i puristi dell’agente segreto al servizio di Sua Maestà ebbero un sussulto d’orgoglio. Biondo e occhi azzurri, spesso irruento e brutale, l’aspetto del protagonista si discostava sensibilmente da quello dipinto da Ian Fleming nei suoi romanzi.
Come spesso accade in questi casi, i fatti diedero loro torto, poiché lo 007 interpretato dall’attore inglese avrebbe avuto, di lì a poco, il merito di risollevare le sorti di un franchise che, con le interpretazioni di Timothy Dalton e Pierce Brosnan dell’ultimo ventennio, aveva imboccato una pericolosa parabola discendente.
Nessuno tocchi Sean Connery, questo sia chiaro. Ma il James Bond di Daniel Craig ha dato uno scossone a una figura che, seppur tra tanti alti e qualche basso, ad oggi apparirebbe anacronistica, impolverata e, talvolta, ai limiti del macchiettistico. E No Time to Die è la perfetta esaltazione dell’universo jamesbondiano.
Il film diretto da Cary Fukunaga, già regista di Jane Eyre nel 2011 e sceneggiatore di It nel 2017, va infatti a chiudere quel ciclo narrativo che, proprio con Casino Royale, aveva dato inizio a una sorta di reboot di James Bond. Alla première del film, ovunque e minaccioso campeggiava il monito #NoTimeToSpoiler. E allora nessun dettaglio che possa impedirvi di gustarvi il film. Anzi facciamo così: della trama di No Time to Die non ne parliamo per niente.
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Si è ampiamente dibattuto sulla pesante eredità che Daniel Craig lascia in No Time to Die, 25esimo capitolo della saga ed ultimo con l’attore inglese nei panni di 007. Un James Bond cinico, talvolta spietato e, al contrario dei suoi predecessori, in grado di uccidere senza un apparente rimorso. Eppure un James Bond così carico di emozioni non si era mai visto. In No Time to Die, i sentimenti e il lato umano del personaggio vengono sviscerati ed esaltati. E Bond viene messo a nudo come mai prima d’ora.
Nel film c’è il tipico british humour che ha sempre caratterizzato la personalità del protagonista, più che negli altri film, a dire il vero. Ma di fondo c’è quell’atmosfera crepuscolare che tormenta 007 e che ritorna costantemente a galla. C’è il tempo alla base del film. Lo suggerisce il titolo. Quel tempo che “non ha importanza”, nelle scene iniziali, ma che riemerge dal passato, per tormentare i protagonisti. Un passato che non accenna a svanire, legato a Vesper Lynd e alla Spectre.
Già, la Spectre. Questo possiamo dirlo…perché chiunque abbia visto almeno un film di James Bond, sa che il nemico giurato di 007 è proprio la famigerata organizzazione terroristica. È in No Time to Die, la Spectre ha il volto di Christoph Waltz, machiavellico, ansiogeno, fastidioso e sempre così meravigliosamente a suo agio nei panni del villain.
Di contro, e non me ne vogliano gli appassionati, a deludere è l’altro antagonista del film. Con tutta la buona volontà del mondo, Rami Malek è probabilmente il cattivo meno carismatico della storia del cinema. Il suo personaggio sembra buttato lì, alla rinfusa. I suoi piani di conquista non vengono mai approfonditi a sufficienza, così come la psicologia del personaggio. Pazienza, non si può voler tutto dalla vita.
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Altra nota dolente, almeno per chi scrive, è quella di Nomi (alias Lashana Lynch) la cui incoronazione a nuova 007 ha dato adito ad ampie e spassose polemiche tra gli appassionati. Ma se “007 è solo un codice…”, le chiacchiere da bar lasciano sempre il tempo che trovano. Il personaggio non trasmette nessun tipo di emozione o curiosità. Il tentativo di farla apparire tagliente e letale la mostrano, in realtà, animata da una saccenza che non si sa bene da cosa derivi, visto che il personaggio è davvero poco caratterizzato.
Che spasso, invece, quella Paloma fresca di nomina ad agente segreto della CIA, e nel film interpretata da Ana de Armas. Divertente, sveglia, frizzante (lei si…) e perfettamente a suo agio nella sua prima missione speciale. D’altronde dopo “tre settimane di training…”, chi non lo sarebbe? Peccato solo sia saltata fuori solo in quest’ultimo capitolo dell’era Craig.
La Bond girl del film, però, è senza dubbio Madelein Swann, interpretata da Léa Seydoux e piuttosto calata nel personaggio ma (e di nuovo, casualmente, è il fattore tempo a ritornare) ancora distante dall’ingombrante eredità lasciata da Eva Green in Casino Royale. Un cast ricco, tra cui spiccano anche Ralph Fiennes, Jeffrey Wright e Ben Whishaw, che rende bene sotto l’accurata guida di Cary Fukunaga.
No Time to Die è un buonissimo film. Probabilmente i livelli di Casino Royale e Skyfall sono un gradino più in alto, ma è una degna, e per certi versi inaspettata, sentimentale conclusione di un ciclo vincente. Daniel Craig chiude col botto, piazzandosi in testa come il James Bond più longevo di sempre. E se Sean Connery è sempre lì, nel cuore degli appassionati, a Daniel Craig va riconosciuto il merito di essere arrivato alle nuove generazioni, valicando il limiti di un tempo che urla a gran voce: No Time to Die.
Goodbye, sir. A vodka martini shaked, not stirred for you.