Nirvana, Roma – 22/02/1994: la nostra testimonianza di un concerto passato alla storia
Accendiamo la macchina nel tempo. Torniamo indietro di 29 anni, al 22 febbraio del 1994. Destinazione Roma, Via Appia, Palaghiaccio di Marino. Io sono in macchina con mio padre, mia sorella e la mia cugina più grande. I biglietti comprati pagando un vaglia in posta, col desiderio di partecipare ad un evento che non sapevamo sarebbe entrato a suo modo nella storia del rock. Sul palco infatti sono attesi i Nirvana, arrivati in Italia il giorno prima in occasione del concerto di Modena.
“Vivere come volare
Ci si può riuscire soltanto poggiando su cose leggere
Del resto non si può ignorare
La voce che dice che oltre le stelle
C’è un posto migliore“
Di nuovo in sella alla macchina del tempo. Siamo sempre nel 1994, ma è l’8 di aprile. Il corpo esanime di Kurt Cobain, cantante e personalità di riferimento dei Nirvana e della scena grunge mondiale, viene trovato nella serra accanto al garage nella sua casa sul Lago di Washington. Io compivo i miei diciotto anni, e dalla piccola tv in cucina venni a sapere di questa morte. Immobilizzata di fronte a quello strambo appuntamento con la storia e con la mia giovinezza.
“Un giorno qualunque ti viene la voglia
Di andare a vedere, di andare a scoprire se è vero
Che non sei soltanto una scatola vuota
O l’ultima ruota del carro più grande che c’è“
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Oggi Cobain avrebbe avuto 56 anni, e io, all’alba dei miei 45 – nonostante gli anni passati, mi ritrovo a ripensare a quei mesi, a quegli avvenimenti come se fossero prossimi, vividi ricordi di una me giovinetta, a caccia di risposte e desiderosa di vivere. Quel concerto ha rappresentato per me uno spartiacque, un momento insieme di svolta e di consapevolezza. Le premesse perché fosse un gran concerto c’erano tutte: moltissimi erano gli adolescenti che come me erano arrivati lì carichi di entusiasmo per l’apertura dei cancelli.
Ricordo perfettamente i varchi, le perquisizioni – fermarono anche mio padre che all’epoca aveva la mia età di oggi, portava i capelli lunghi raccolti in un codino e fumava Marlboro rosse. Aveva accettato di buon grado di accompagnarci, non avremmo avuto diversamente il permesso di arrivare fino a Roma da sole, ma anche perché Nevermind era uno dei suoi dischi preferiti, aveva la cassetta nello stereo della macchina con cui tutte le mattine ci accompagnava a scuola.
In verità Cobain non era al massimo della forma, stava vivendo già da tempo (o forse non era mai stato diversamente da così?) un periodo difficile, fatto di uso di droghe e disagio profondo. Rimase fermo sul palco durante tutto il concerto, non muovendosi mai dalla sua posizione; sembrava stanco quasi distaccato da tutto quello che gli succedeva intorno. La gente sotto al palco si accalcava pogando e creando un magnifico e dirompente giro di corpi, spesso interrotti dal bassista Novoselic che in un italiano spagnoleggiante, lanciando anche più di qualche imprecazione, si preoccupava delle persone nella calca che avevano la peggio, con svenimenti e calpestamenti.
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D’altronde c’era davvero tanta gente, un gran caldo e poco ossigeno – io con il mio gruppetto ero nella parte centrale del secondo o terzo anello di quello che allora si chiamava PalaLottomatica, e ricordo che il fumo denso di sigarette e canne aveva saturato l’aria e reso l’atmosfera fosca e pesante.
Ricordo che la scaletta filò liscia per un bel po’, fino a che Kurt non voltò le spalle al noi altri sparendo dietro le quinte e da lì afferrando e scaraventando una delle sue chitarre sul palco, oltre gli amplificatori. Un gesto strambo che mal si sposò con la sua fissità in scena, forse un gesto di ribellione, che mi parve più simile ad un clichè che a una vera e propria esigenza, o anche solo voglia di spettacolarizzare. Per poi sparire definitivamente dopo aver lasciato il palco senza neanche un ciao, lasciando il resto della band a suonare in attesa, divenuta poi vana, del suo ritorno.
La chiusura fu definitivamente chiara quando Dave Grohl – allora batterista del gruppo, che poi diventerà leader dei Foo Fighters, abbandonando la batteria si mise al posto di Cobain, davanti al microfono lasciato abbandonato dicendo, alzando le braccia tese in aria “I’m the rockstar!”. Penso non lo dimenticherò mai!
Fu un concerto insomma caratterizzato da molti segnali di stanchezza e di sofferenza della band, in continuo bilico, oggi possiamo dire prova di un vero e proprio scollamento in atto, dipendente di certo dall’umore e dal carattere del nostro Kurt.
Il resto poi è storia. La settimana successiva al concerto – mentre era a Roma con la moglie e la figlia, fu ricoverato a causa di una overdose da farmaci e alcool. Curtney disse tempo dopo che quello era stato di certo un tentativo di suicidio da parte del marito, sempre più martoriato dalle droghe che avevano lasciato emergere il buio, l’insofferenza profonda che abitava chi come Kart Cobain aveva da sempre odiato il machismo di una certa musica rock, e mal sopportato il clamore eccessivo e l’onda spasmodica e straniante del successo.
“Ma chiedilo a Kurt Cobain
Come ci si sente a stare sopra a un piedistallo
E a non cadere
Chiedilo a Marilyn
Quanto l’apparenza inganna
E quanto ci si può sentire soli
E non provare più niente
Non provare più niente
E non avere più niente
Da dire
Vivere come sognare
Ci si può riuscire spegnendo la luce
E tornando a dormire“
Un poeta moderno, un interprete del malessere profondo che attraversò quegli anni novanta, con la sua carica dirompente, a tratti distruttiva, fino alle estreme conseguenze.
Da parte di chi come me era lì a ballare e urlare alla sua vita, e oggi si trova a ripensarsi alla luce della enorme fragilità in cui ci siamo trovati (non tanto) repentinamente immersi, non può che continuare ad esserci amore profondo per quel tempo e per quella musica, che in quei giorni d’inizio aprile ha visto la fine del Grunge insieme a quella di uno dei maggiori, o per chi non sarà d’accordo, almeno dei più rilevanti interpreti del rock moderno.
A 29 anni da quel ritrovamento, a 29 anni da quel corpo allungato a terra privo di vita, da quell’ultimo concerto a Roma, Kurt Cobain resta consegnato al mito, personale e collettivo – non già per via dei milioni di dischi venduti in pochi anni, ma per la sua fragile ruvidezza, per la sua incapacità a difendersi da se stesso, dall’urto con quel mondo in cui gli era capitato di trovarsi.
Vivere come nuotare
Ci si può riuscire soltanto restando a pelo del
mare
D’altronde non si può tacere
La voce che dice che in fondo a quel mare
C’è un mondo migliore
E proprio quel giorno ti viene la voglia
Di andare a vedere, di andare a scoprire se è
vero
Che il senso profondo di tutte le cose
Lo puoi ritrovare soltanto guardandoti in fondo*[1]
SETLIST NIRVANA ROMA 1994:
Radio Friendly Unit Shifter
(Deep Purple “Smoke On The Water” Intro)
Drain You
Breed
Serve the Servants
Come as You Are
Smells Like Teen Spirit
Sliver
Dumb
Run to the Hills (Iron Maiden cover) (Jam session)
In Bloom
About a Girl
Lithium
Pennyroyal tea
School
Polly
Very Ape
Lounge Act
Rape Me
Territorial Pissings
Encore:
All Apologies
On a Plain
Scentless Apprentice
Heart-Shaped Box + Jam
[1] Kurt Cobain, Brunori Sas in Il Cammino di Santiago in taxi, vol. 3 (2014)