Come ho imparato a non preoccuparmi e ad amare Nicolas Cage
C’è un campionario di smorfie, gesti e battute che i detrattori di Nicolas Cage potranno citare ogni qualvolta qualcuno provi a convincerli della bravura di questo attore. Per una sorte toccata a molti attori dell’olimpo hollywoodiano, uno fra tutti Eddie Murphy, gli anni 2000 sono stati la mazzata tra capo e collo a una carriera fatta di grandi prove attoriali e importanti sodalizi artistici. Successe anche a me di recuperare, da ragazzino, film come ‘L’Apprendista Stregone’ e ‘L’ultimo dei templari’, e chiedermi chi fosse questa mummia che aveva lavorato – leggevo – con i Coen, con Coppola e con un tale di nome Herzog.
È appunto quello che succede quando si pretende di giudicare anche la carriera di Murphy dai suoi film peggiori: “La casa dei fantasmi”, “L’asilo dei papà” o “Norbit”. Pellicole che arrivano nella carriera di tutti, prima o poi. Anche a un infallibile come Di Caprio che fa pochi film, accuratamente selezionati. Di Caprio può permetterselo, per ora, ma che succede se sulla testa ti cadono – non per una sorte maligna – tre divorzi e il vizio del gioco?
Per studiare la filmografia di Nicolas Cage, quando ho deciso di recuperarlo senza pregiudizi, ho capito che avrei dovuto, necessariamente, buttare un occhio alla sua vita privata: su suggerimento di un amico, scopro che Cage è un mago del divorzio, precisamente uno nel 2000 con l’attrice Patricia Arquette, un altro nel 2002 con Lisa Marie Presley, a due mesi dal matrimonio. Si mette con una cameriera conosciuta un mese dopo l’ultimo dei due divorzi citati: la coppia ha un figlio ma si lascia dopo appena un mese di convivenza. Nel 2019 si sposa con Erika Koike, una makeup artist. Passano quattro giorni dal matrimonio, Cage chiede il divorzio. Intanto, nel 2015 è costretto a pagare 96 milioni di dollari al fisco statunitense, dopo una lunga serie di debiti accumulati negli anni.
Questo vi restituisce un’idea preliminare sul perché Cage accetti letteralmente ogni film che gli viene proposto. Non a caso, lo noterete spulciando dalla sua filmografia, il peggio nella sua carriera di attore inizia alle porte degli anni 2000: La trilogia di ‘National Treasure’ (nel 2004 e nel 2007), Next (2007), Segnali dal Futuro (2008), Bangkok Dangerous (2009), L’Apprendista Stregone (2010). Negli anni 2000 aumenta anche il numero di film all’anno a cui prende parte: da una media di due film all’anno fino alla fine dei ’90, passa a una media di tre film per anno (nel 2011 e nel 2014 recita in quattro film, nel 2016 in 6 film).
Sebbene negli ultimi anni la dignità artistica di Nicolas Cage sia stata rivalutata nel settore underground – pellicole come ‘Mandy’ di Panos Cosmatos o ‘Joe’ di David Gordon Green –, nulla leva dalla testa dei più che i film sopracitati siano la pietra tombale sulla fine di una carriera. E vai a vedere che complice, in molti casi, è la fama che Cage ha acquisito nel tempo come personaggio ludopatico, violento, con un serio problema della gestione dei soldi e della calma.
Sono cose che, a naso, sembra influiscano nel giudizio delle qualità artistiche, ad Hollywood e fuori dalla west coast. Ma tralasciando le questioni etiche, la domanda viene naturale: c’è mai stata un’epoca in cui Nicolas Cage ha recitato bene? Se sì, cos’è successo dopo? Per spiegare la metamorfosi di questo attore fuori dagli schemi, citeremo qualche titolo, come fanno quelli che hanno studiato.
Il primo film importante a cui Nicolas Cage prende parte è ‘Rusty il selvaggio’, capolavoro di Francis Ford Coppola del 1983. All’epoca, Cage aveva appena 19 anni ed era reduce da un paio di esperienza cinematografiche. Collabora ancora con Coppola anche l’anno successivo, in ‘Cotton Club’, e nel 1986, quando viene scelto come protagonista nel film ‘Peggy Sue si è sposata’. A 23 anni aveva già lavorato con i Fratelli Coen. (Arizona Junior), Alan Parker (Birdy) e Norman Jewison (Stregata dalla Luna, campione d’incasso nell’87).
Il 1990 è l’anno della collaborazione con David Lynch. ‘Cuore Selvaggio’ è un capolavoro senza tempo, un vero gioiello di cui si sente parlare troppo poco. Cage, a 26 anni, regala l’interpretazione della sua carriera: il suo è il volto perfetto per la ricerca espressiva di Lynch, con quell’aria stralunata e una bellezza misteriosa, fuori dai canoni mainstream dell’industria hollywoodiana. Qui Cage si dimostra all’altezza di un artista che al suo quinto film è ormai un maestro senza precedenti: il suo Sailor, con una giacca di pelle di serpente diventata icona, è indimenticabile. L’alchimia con Laura Dern è istantanea, per lo spettatore è un sogno ad occhi aperti.
Una volta Lindsay Gibb – che ha scritto un libro monografico molto interessante su Nicolas Cage – disse una cosa che mi sento di sottolineare: Cage è un attore sperimentale. Non nel senso che non sa quello che fa, gigioneggiando sullo schermo. Nel senso che è perfettamente conscio di quello che sta facendo, e osa sempre più del dovuto – quando può. Cito questo concetto come introduzione al film probabilmente più celebre del Cage anni ’90 assieme a ‘La città degli angeli’: Via da Las Vegas.
Diretto da Mike Figgis, esce nelle sale di tutto il mondo nel 1995, ed è un successo. Cage si becca, per la prima volta, la statuetta dell’Oscar come miglior attore protagonista, mentre il film viene inserito da molti critici nella lista delle migliori pellicole del decennio. A ragione, si capisce. ‘Via da Las Vegas’ è un film costruito su strati diversi, e non di immediata comprensione. Questo perché l’interpretazione di Nicolas Cage va valutata fuori da ogni comune criterio di giudizio: sarebbe folle parlare di una brutta interpretazione, ma è impossibile anche limitarsi a tesserne le lodi.
Il lavoro che fa Cage con questo personaggio atroce, alcolizzato, distrutto da una vita di fallimenti, umiliazioni e porte in faccia, è una chicca a cui raramente siamo abituati ad assistere. Contrariamente a quanto si creda, Cage non va in over-acting (quella mania di certi attori italiani di sgranare gli occhi, spalancare le fauci e gridare per chiedere che ore sono), ma ha la qualità opposta: riesce a portare un personaggio al limite, rimanendo perfettamente credibile.
Perché? Perché è il film che lo richiede. Così, quando Figgis gli affida un personaggio che scola vodka e rum tutto il giorno – mentre guida, mentre discute, mentre riposa –, Cage si cala nel ruolo e decide di bere assieme al suo personaggio: l’alcol che vedete in ognuna delle scene del film, è alcol vero. Cage volle ubriacarsi per restituire il disagio del protagonista, unendo questa scelta a uno studio sui movimenti che è di rara fattura. La magnifica fotografia di Declan Quinn incide i fasci di luce blu come tocco ultimo su un volto che lavora di fino superandosi di sequenza in sequenza.
Alla fine degli anni ’90, Nicolas Cage è consacrato dall’Academy e per lui arrivano nomi sempre più grandi: nel ‘96 lavora con Michael Bay nel celebre ‘The Rock’, nel ’97 affianca John Travolta nel fortunato ‘Face Off’ di John Woo, nel ’98 viene chiamato da Brian De Palma per ‘Omicidio in diretta’, mentre nel ’99 lo aspetta una doppietta: ‘Delitto a luci rosse’ per Joel Schumacher e ‘Al di là della vita’, il film più controverso di Martin Scorsese, al quale serve un volto altrettanto controverso.
Ho citato qualche titolo per illustrare in maniera pratica, fattuale, che Nicolas Cage è stato ed è capace di ruoli di grandissimo valore. Sul piano artistico – perché averlo in scena significa un mosaico di espressioni che solo un volto particolare come il suo riesce a regalare al film – e sul piano produttivo – averlo nel cast significa incasso, 9 volte su 10.
Gli anni 2000 vedranno altre ottime collaborazioni: lavora nel 2009 con Werner Herzog nello strepitoso ‘Il Cattivo Tenente: Ultima chiamata New Orleans’, dove regala l’esperienza attoriale più folle e schizofrenica del decennio: oltre alla straordinaria bravura di Cage – che per il ruolo vince il premio come miglior attore al Toronto Film Festival –, c’è il gioco psicotropo di Herzog che infila ovunque, come in una caccia al tesoro con lo spettatore, momenti di puro misticismo e piccole uova nascoste che spostano il film sul piano del realismo magico – ma in realtà sono soltanto le droghe.
Lavora anche con Charlie Kaufman, di cui riveste simbolicamente i panni nel miglior film del regista newyorkese: ‘Il ladro di orchidee’, con cui viene nominato agli Oscar e dove interpreta – per la gioia dei detrattori, quasi una provocazione – il doppio ruolo di due fratelli, entrambi sceneggiatori. Li distinguiamo per stupidità grazie alle modulazioni di Cage nelle espressioni e nell’esuberanza con cui affronta i personaggi – uno è fesso, l’altro è un intellettuale sommerso dalle paranoie.
Insomma, arriviamo alla seconda, centrale domanda: perché Cage recita così male, nei film che abbiamo citato all’inizio? Perché esiste un’intera lista di pellicole – diciamo una quindicina – in cui Cage recita in maniera folle, irrazionale, oppure scialba e inespressiva?
Per rispondere a questa domanda, riprendo il suggerimento di un amico – quello che ho citato prima – di affidarmi al modello Boris. Nella prima stagione della serie di culto di Torre-Ciarrapico-Vendruscolo, René Ferretti (Francesco Pannofino) suggerisce al grande attore Orlando Serpentieri (Roberto Herlitzka) di adattarsi al livello di Stanis e Corinna, i due protagonisti cani della fiction ‘Gli occhi del cuore’, per non farli sfigurare. Riporto fedelmente: “Maestro, ha visto la differenza tra lei e gli altri attori? Lei rischia di farmeli sembrare dei cani. Molli un po’ il personaggio, lo molli. La faccia, se mi permette… a cazzo di cane!”
Fuori dalla mia personale simpatia per un attore che non si è mai preso sul serio e ha promosso la diffusione dei meme sul suo conto – uno che definisce la sua tecnica recitativa ‘nouveau shamainc acting’ –, Cage è un attore importantissimo per il cinema americano attuale, non solo per i premi e le nomination ricevute – quelle ci interessano a metà – e neppure soltanto per le collaborazioni stellari – insomma, non sarà mica rincoglionito Herzog.
No, è importante anche e soprattutto perché i suoi atteggiamenti esageratamente psicotici, la sua fisionomia complessa, il tono stralunato e sciatto, gli occhi che facilmente schizzano fuori dalle orbite, sono tratti formali che prima di molti altri hanno avviato la recitazione moderna verso l’emancipazione dalle strutture sobrie e formali degli anni passati. In questo senso è un attore che si cala perfettamente nei panni dell’interprete post-moderno, e che nel post-modernismo undeground americano ci sguazza divinamente, guardare per credere!