Mostri umani e umanità mostruosa: la lezione di Lynch e Browning sul diverso
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La figura del mostro ha da sempre esercitato un fascino irresistibile sull’immaginario collettivo: il mostro è ciò che ci attrae ma al contempo ci respinge, ci terrorizza ma ci seduce, perché ci permette di esplorare l’ignoto rimanendo in una zona di sicurezza.
Dracula, Frankenstein, il Fantasma dell’Opera, la Creatura della Laguna Nera, King Kong fino ai più recenti “mostri” (o tristemente detti “fenomeni da baraccone”) di “The Greatest Showman” e “Freaks Out“: sono tutti mostri che hanno affollato la letteratura e il cinema, non perché rifuggiamo da loro, ma perché li vogliamo confinati in uno spazio controllabile, dove non possano invadere la nostra realtà.
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Il mostro è lo specchio oscuro dell’umanità, il riflesso delle nostre paure più intime e inconfessabili. Ma siamo sinceri: proviamo empatia per il mostro, una curiosità che può persino diventare adulazione e amore, purché sia a distanza… protetti dalla scatola della televisione o dalle pagine di un libro. Mentre accettiamo con una certa serenità i mostri immaginari, rifiutiamo quelli reali: l’umanità deforme, l’anormalità fisica o mentale che ci costringe a mettere in discussione i canoni che definiscono la “normalità”.
Il padre dei mostri
Con la recente scomparsa di David Lynch, il mondo del cinema e tutti i suoi appassionati si sono ritrovati a riflettere sull’impatto e sull’importanza del suo contributo artistico. “The Elephant Man” rimane uno dei suoi film più toccanti, un’opera che non solo ne ha consolidato la reputazione come autore, ma che ha anche aperto un dialogo universale sulla condizione umana. Con la sua sensibilità visionaria, Lynch ci ha regalato un film che ci commuove e ci scuote profondamente, affrontando con rara delicatezza il tema della diversità.
Riflettendo sul rapporto con il “mostro-umano” di cui accennato sopra, proponiamo un’analisi a confronto tra due capolavori cinematografici distanti quasi mezzo secolo: “The Elephant Man“ di David Lynch (1980) e “Freaks” di Tod Browning (1932). Entrambi affrontano questo tema, ma da prospettive opposte, offrendo riflessioni di straordinaria profondità sul concetto di identità e accettazione, oggi più attuale che mai.
I mostri di Browning: l’orgoglio della deformità
Nel 1932, Tod Browning osò realizzare un film che sfidava le convenzioni e metteva a disagio lo spettatore. “Freaks” è una celebrazione della diversità umana attraverso la vita di una comunità di artisti circensi, composta da persone reali affette da deformità fisiche. La loro umanità è totale e Browning non si limita a rappresentarli come vittime o oggetti di pietà. Al contrario, li mostra come individui che vivono, amano, ridono e, all’occorrenza, si vendicano con ferocia.
“Noi siamo come voi, ma voi non siete come noi”, sembra sussurrare il film. I freaks non cercano il riconoscimento o l’accettazione della società borghese; la loro forza è nella consapevolezza di ciò che sono e nell’orgoglio di appartenere a una comunità unita dalla diversità.
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La potenza di “Freaks” sta proprio nella sua crudezza: Browning ci costringe a confrontarci con la nostra ipocrisia e il nostro rifiuto del diverso. Come spettatori, ci viene chiesto di mettere in discussione il nostro desiderio di normalità, mentre il film smonta qualsiasi illusione di superiorità morale o estetica.
Il mostro che desidera essere uomo: “The Elephant Man“
Quasi mezzo secolo dopo, David Lynch affronta il tema del mostro con un approccio radicalmente diverso. John Merrick, l’“Uomo Elefante”, è l’emblema della tragedia umana. A differenza dei freaks di Browning, Merrick non accetta la sua condizione. Egli desidera ardentemente essere riconosciuto come uomo, nonostante il suo corpo deforme lo confini al ruolo di attrazione morbosa.
“Non sono un animale, sono un essere umano! Sono un uomo!”
Così grida Merrick in una scena iconica che racchiude tutto il dolore e il desiderio di chi non si sente accettato. Lynch costruisce un racconto struggente, permeato da una malinconia che accompagna lo spettatore fino al commovente finale. John Merrick è un bambino intrappolato in un corpo mostruoso, incapace di trovare conforto anche nei momenti più intimi. La scena in cui tenta disperatamente di dormire come una persona normale è il simbolo di un desiderio impossibile: il ritorno a un’umanità che gli è stata negata.
Lynch utilizza la figura di Merrick per esplorare il conflitto tra apparenza e sostanza, tra ciò che vediamo e ciò che siamo. Il regista non si limita a commuovere; invita a riflettere sul modo in cui la società giudica e tratta il diverso. La pietas del dottor Treves, contrapposta alla brutalità dei suoi sfruttatori, rappresenta il doppio volto dell’umanità: capace di compassione, ma anche di crudele indifferenza.
Specchi opposti: una riflessione sull’umanità
Mentre “Freaks” celebra l’orgoglio della diversità e rifiuta il desiderio di riconoscimento, “The Elephant Man” si nutre del dramma di chi cerca disperatamente di essere accettato. I due film, seppur antitetici, si completano a vicenda, offrendo una riflessione profonda sul significato dell’identità.
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Tod Browning ci mostra che si può vivere senza il desiderio degli altri, trovando forza nella propria comunità e identità. Lynch, invece, ci ricorda quanto possa essere doloroso essere respinti e quanto il desiderio di appartenenza sia intrinsecamente umano. Entrambi, però, mettono in luce la stessa verità: l’umanità non si misura con i canoni estetici, ma con la capacità di provare emozioni, di amare, di soffrire.
Con la perdita di David Lynch, il cinema non ha perso solo un maestro, ma un autore capace di esplorare gli abissi dell’animo umano. “The Elephant Man” è forse la sua eredità più dolce e struggente, un film che ci invita a guardare oltre le apparenze e a riconoscere l’umanità in tutte le sue forme, anche quelle che ci spaventano di più.