Master Of Puppets dei Metallica compie 34 anni. Epitaffio di Cliff Burton, per molti è il capolavoro dei Four Horsemen
Nel marzo del 1986 i Metallica si apprestavano a dare alle stampe “Master Of Puppets”, terzo album della band di San Francisco, da molti considerato il punto più alto della loro discografia. Se il primo “Kill’ Em All” (1983) era frutto di quell’ondata thrash senza compromessi dei primi anni ’80 (anche grazie all’impatto di un devastante Dave Mustaine), e “Ride The Lightning” aveva aggiunto sonorità figlie della NWOBHM, “MOP” aveva consacrato Hetfield e soci come una tra le più grandi band al mondo, capace di influenzare migliaia di formazioni emergenti e in grado di riempire arene e stadi in giro per il globo.
Nel mondo del thrash metal il 1986 è un anno sacro. Oltre ai Metallica, anche altri gruppi hanno pubblicato dei dischi inarrivabili, non sono per qualità espressa ma anche l’impatto che hanno avuto sulla scena. Vale la pena citare gli Slayer di “Reign In Blood”, i Medageth di”Peace Sells… but Who’s Buying?”, i Kreator di “Pleasure To Kill”, i Nuclear Assault di “Game Over, i Sepultura di “Morbid Visions”, i Possessed di “Beyond The Gates, i Whiplash di “Power and Pain”.
“Master Of Puppets” va oltre l’integralismo thrash metal. Evolve le sonorità presenti sul suo predecessore, andando a chiudere definitivamente con quella furia ceca e senza compromessi che aveva caratterizzato “Kill’Em All”. Non più thrash oltranzista dunque ma un’apertura dichiarata a sfumature più heavy metal e figlie di un approccio al genere di matrice europea. Fermo restando il “tiro” che brani come “Battery” o la stessa title track presentano, il pattern bilancia alla perfezione le sferzate tipiche del genere, frutto di ritmiche serrate e in your face, con momenti più melodici e un songwriting più vario rispetto al passato.
Con questo full-lenght i Metallica non solo vincono la scommessa di cambiare pelle al proprio sound, ma entrano di diritto nell’Olimpo dei grandi del metal. Nelle settimane immediatamente successive alla sua pubblicazione si attestò come il primo lavoro del gruppo a vendere più di 500.000 copie (ad oggi sono circa sette milioni solo negli U.S.A.) e nel 2017 la rivista Rolling Stones lo ha inserito al secondo posto nella classifica dei dischi metal più belli di sempre.
“Master Of Puppets” è purtroppo l’ultimo album dei Metallica con Cliff Burton al basso. Nel settembre del 1986 la band è in Europa, nel pieno del tour promozionale al disco. La sera del 26 si esibisce a Stoccolma. E’ un grande show, il pubblico è entusiasta e l’umore della band è alle stelle. D’altronde è il periodo d’oro della formazione a stelle e strisce. Nessuno di loro avrebbe mai immaginato che da lì a poche ore la loro vita sarebbe cambiata. Dopo il concerto nella capitale svedese il tour bus si rimise in cammino e, all’altezza di Ljungby, l’autista perse il controllo a causa di una spessa lastra di ghiaccio sull’asfalto. Le dinamiche dell’incidente, però, ad oggi presentano ancora dei dubbi.
Il mezzo, ormai fuori controllo, si ribaltò e Burton, che dormiva nella cuccetta al lato del finestrone del bus, sfondò il vetro e rimase schiacciato tra le lamiere del bus rovesciato. Era morto. Nonostante i soccorsi piuttosto tempestivi(si parla di circa 15/20 minuti) i tentativi di salvare lui la vita furono vani. Kirk Hammett, James Hetfield e Lars Hulrich reagirono nell’unico modo che conoscevano: ubriacandosi selvaggiamente e sfasciando stanze d’hotel. Hammett passò intere giornate a piangere, Ulrich non voleva dormire se non con la luce della stanza accesa e Hetfield sfogò la sua rabbia e il suo dolore nel distruggere tutto ciò che gli capitava a tiro.
L’evento cambiò per sempre il mondo dei Metallica che da quel giorno non hanno mai smesso di celebrare il loro bassista. “Master Of Puppets” è l’epitaffio musicale della band di Frisco con Cliff in line up, forse l’album che più di tutti ne ha identificato il suono e li ha consegnati alla gloria eterna. Ma il vuoto dettato dalla sua morte non sarà mai più rimarginato, neanche con l’ingresso in formazione di musicisti di spessore come Jason Newsted e Rob Trujillo. Per molti fan della prima ora, infatti, i Metallica, artisticamente parlando, morirono quel giorno. Un giudizio censoreo e non del tutto veritiero, ma da quell’episodio in avanti anche le prospettive musicali dei Four (Three?) Horsemen cambiarono definitivamente.