L’intervista – Massimo Venturiello porta Agamennone al Teatro Arcobaleno, tra classico e moderno
Con una carriera ormai ultraquarantennale alle spalle, che lo ha visto eccellere nel teatro ma recitare anche in tanti film, lavorare molto in televisione e distinguersi per alcuni famosi doppiaggi, Massimo Venturiello è senza dubbio un interprete di spicco e a tutto tondo nel mondo dello spettacolo italiano.
Lo abbiamo raggiunto telefonicamente per una piacevole chiacchierata mentre è impegnato fino al 27 novembre al teatro Arcobaleno di Roma nell’intenso “Agamennone” di Ghiannis Ritsos, che lo vede nella doppia veste di protagonista e regista e che, inutile dirvelo, vi consigliamo assolutamente di andare a vedere.
Ecco che cosa ci ha raccontato.
Il suo Agamennone è un personaggio decisamente trasformato rispetto a quello che ci è stato consegnato dalla tradizione epica. Ci spiega chi è diventato e perché è cambiato?
Oltre che su Agamennone, Ritsos ha lavorato molto bene su diversi eroi dell’antica Grecia, con l’obiettivo, sempre centrato mi sento di dire, di portarli nella quotidianità, di renderli personaggi contemporanei e credibili. Rispetto a quello di Eschilo, l’uomo che ci presenta è una persona stanca, soprattutto interiormente. È per questo motivo che si pone tante domande e, di conseguenza, le fa porre anche a noi che lo osserviamo muoversi e parlare in scena. In Ritsos, poi, è molto importante il rapporto tra il protagonista e Clitemnestra, perché Agamennone sembra dimostrare fin da subito una certa, chiara percezione della fine che lo aspetta, della tragedia che lo sta per colpire, cosa che invece in Eschilo non è così ravvisabile, d’acchito. Anche in questo risiede, a mio giudizio, la sua “modernizzazione”, il suo essere uomo contemporaneo.
Quali sfide le ha posto, in termini di messa in scena e di regia, il testo? In che modo ha lavorato, soprattutto considerando che i suoi compagni di scena sono anche stati suoi allievi nell’Officina Pasolini?
Ci tengo innanzitutto a specificare che i ragazzi che ho scelto sono degli ottimi professionisti ormai, con un grande potenziale. E proprio per valorizzare questo potenziale, mi sono permesso qualche licenza, per far sì che emergessero le loro peculiarità attuali, soprattutto in termini “visivi”. E poi, proprio come Ritsos, ho cercato di attualizzare Eschilo, rendendo la sua storia una storia di oggi, credibile ai giorni nostri.
Sempre rimanendo sul tema dell’insegnamento: che maestro di teatro è Massimo Venturiello? Come si approccia all’aspetto formativo del suo mestiere di attore?
Negando il concetto di “maestro”, innanzitutto, e non lo dico per una forma di modestia d’occasione. Per me non esiste “cattedra”, non può e non deve mai esserci un rapporto di mera sudditanza tra gli attori e tra gli attori e il regista, anche quando il bagaglio esperienziale è palesemente differente. È necessario invece che si inneschi in ogni circostanza un bel “reagire”, un interscambio che permetta di superare certe impasse caratteriali e dare spazio i singoli talenti. I giovani di oggi mi sembrano meno reattivi rispetto a come eravamo noi alla loro età, dunque diventa fondamentale spingerli verso l’emotività, l’impulsività, che in scena sono fondamentali. L’attore deve essere spudorato, deve essere libero da costrizioni e convenzioni se vuol far emergere la propria anima. In una parola, deve essere trasgressivo.
Giorni fa, ho avuto la fortuna di assistere al suo monologo “La prima indagine di Montalbano” e ammirare la sua straordinaria capacità di cogliere le peculiarità orali e musicali del testo di Camilleri. Posso chiederle qual è stata la sua formazione e qual è il training abituale che le consente di avere una voce del genere? E, già che ci siamo, qual è il personaggio che le è piaciuto più di doppiare?
Partiamo dalla coda della domanda: casa mia è il teatro, io il doppiaggio l’ho semplicemente “frequentato”, come il cinema e la televisione, d’altronde. Detto ciò, ci sono stati comunque dei personaggi che la gente ha molto amato, per esempio Ade nel cartone animato “Hercules”, che per alcuni giovani che ho avuto come allievi rappresenta addirittura un mito. Poi il Sirius nei film di Harry Potter o, ovviamente, Kit in “Supercar”.
Per quanto riguarda nello specifico Camilleri, che è stato tra l’altro il mio insegnante di regia nell’Accademia di Arte Drammatica, sono stato felicissimo quando mi ha scelto per l’audiolibro tratto dal suo romanzo “La rete di protezione”. Da lì è partita una bella avventura che mi ha visto impegnato con altri dieci dei suoi tanti testi. In che modo sono riuscito a renderli (anche a teatro con “La prima indagine di Montalbano”? Non saprei cosa rispondere, se non che amo chiaramente la sua narrativa e amo la Sicilia, la musicalità della sua lingua. Per il resto, credo si tratti di una normale forma di predisposizione alla voce che diversi attori hanno grazie a madre natura. Una capacità di far vedere e sentire attraverso le parole.
Torniamo ad “Agamennone”: rispetto ai primi allestimenti, come è cambiato lo spettacolo con il procedere delle repliche? Soprattutto, l’attuale conflitto russo-ucraino le ha suggerito qualche nuova suggestione scenica?
Beh, potrei dire che, pur non avendolo cambiato, di certo la guerra tra Russia e Ucraina ha dato allo spettacolo una sorta di diversa “consapevolezza”, visto che ormai siamo testimoni ogni giorno dei massacri e a delle atrocità che la televisione ci costringe a vedere e, chiaramente, anche quando assistiamo a “Agamennone” diventa inevitabile ricavarne certi tristi rimandi. Nulla, comunque, che Ritsos non avesse previsto nel suo testo. Non dimentichiamoci che lui una situazione del genere la visse in prima persona, quando, per difendere le proprie idee e la propria arte, venne torturato per anni nei campi di concentramento fascisti senza mai rinnegare il suo credo politico e senza mai venir meno alla sua musa.
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La connotazione politica del testo di Ritsos è particolarmente evidente. Il suo spettacolo anche? Più in generale, qual è secondo lei il giusto compromesso che attori e registi devono trovare tra la necessità di entertaining e la “vocazione” al messaggio?
Il teatro, come qualsiasi forma d’arte, deve avere una sua totale autonomia nel restituire dei contenuti che possono essere utili, ma non bisogna “inchiodarsi” alla necessità di dover per forza fornire un messaggio “alto”, perlomeno questo non vale per me. Il mio obiettivo è quello di interpretare degli spettacoli che abbiano una forza comunicativa e che sappiano avvincere lo spettatore. È chiaro che questo risultato si ottiene più facilmente con una tipologia più “facile”, ma, nondimeno, anche cose più di nicchia come questo “Agamennone” possono sortire grandi effetti ed essere popolari. Perché se è vero che il testo di partenza ha una sicura connotazione politica, a me interessa principalmente trattenere il pubblico con la mia capacità artistica. Sono ossessionato dal rischio di annoiare chi ho davanti in un teatro e considero questa cosa, nello stesso tempo, come la mia principale debolezza e la mia maggiore virtù.
Ultima domanda: nel 2022, secondo lei, che tipo di diversa prospettiva di lettura del reale è ancora in grado di offrire la tradizione epica, occidentale in particolare?
Difficile poter rispondere a questa domanda… Potrei dire che, secondo me, non è esistito ancora nessuna forma di teatro in grado di superare il “teatro epico” di Brecht, la sua rivoluzione. Io credo che la sua lezione sia più viva che mai, soprattutto per quanto concerne il modo in cui permette ancora oggi di catturare l’attenzione e la coscienza della gente. E, proprio perché sono convinto di questo, l’anno prossimo ho in mente di mettere in scena un capolavoro del grande drammaturgo tedesco, anche se non voglio anticipare nulla fino a quando non sarò sicuro di farlo al cento per cento.