Mary Shelley, scrittrice prodigio della diversità
Quando Mary Shelley scrisse il best seller “Frankenstein” aveva solo 19 anni. Una scrittrice prodigio. Precoce. Fuori dagli schemi convenzionali.
Figlia di Mary Wollstonecraft e del filosofo e politico William Godwin, fu amante e poi sposa di uno dei più importanti poeti romantici inglesi: Percy Bysshe Shelley.
Questa loro relazione, che portò anche ad un figlio fuori dal matrimonio, creò scalpore.
Come il suo romanzo più celebre. Quel “Frankenstein; or, The Modern Prometheus” scritto nel 1816 e la cui idea le venne in Svizzera, a Ginevra, dopo un incontro nella villa di Lord Byron dove avvenne una di quelle sfide letterarie tipiche del XIX secolo. Quelle discussioni che tanto piacevano ai poeti romantici.
Quel dibattere per dimostrare la grandezza del proprio io, della propria attitudine, dell’essere un genio letterario.
L’opera di Mary Shelley ebbe origine da una di queste competizioni. Quella di Villa Diodati, dove la giovane inglese ebbe l’ispirazione in seguito alle chiacchierate con gli ospiti, in particolare il medico Polidori. Le conversazioni vertevano principalmente sul galvanismo, la contrazione dei muscoli in seguito a una scossa elettrica. Ma anche su mostri, fantasmi, miti.
Nel libro Frankenstein è il dottore che darà vita alla mostruosa creatura senza nome. La quale, però, erroneamente viene chiamata proprio con il nome del suo creatore dopo le varie trasposizioni cinematografiche.
Leggi anche “Poor Things”: il nuovo film di Lanthimos è una rivisitazione di “Frankenstein”
La storia shelleyana riprende ovviamente il mito di Prometeo, il quale rubò il fuoco agli dei per donarlo agli uomini favorendone lo sviluppo e la sopravvivenza.
La ribellione del titano è alla base dello scritto di Shelley in quanto esempio di tentativo di opposizione al destino. É presente anche la versione del mito proposta da Ovidio nelle Metamorfosi, per il quale Prometeo plasmò l’uomo dalla creta.
Il riferimento al personaggio mitologico fu probabilmente indotta anche dal “Prometeo liberato”, opera del marito Percy Shelley.
Il dottor Victor Frankenstein e la sua creatura divennero un punto di riferimento letterario nell’800. Ma anche in seguito. Questo grazie alla rappresentazione della più grande paura dell’uomo: la diversità.
Presentata sottoforma di mostro. Creato sfidando la scienza e la religione. Andando oltre le colonne d’Ercole. Una creatura nata non per uccidere. Ma che diventa un serial killer perché la società lo rifiuta. Lo mette ai margini. Diventando così un simbolo della paura.
Un tema ripudiato dal Settecento di marca illuminista. Mary Shelley introduce l’orrore necessario all’immaginario onirico.
Rende il personaggio, nato dalle mani del dottore svizzero, simile a quel Don Chisciotte che l’autrice era solita leggere in quegli anni. Entrambi erano arrivati a tristi epiloghi dopo essere partiti con ben più nobili obiettivi.
Nel Frankenstein della scrittrice inglese si intravede Rosseau, Locke e lo stesso padre Godwin.
Il filosofo francese lo si ritrova nella condizione primordiale dell’uomo corrotta poi dalla società. Lo sguardo della stessa rende mostro la creatura. Non la sua natura.
L’essere creato da materia inanimata è simbolo del brutto estetico. Che allontana i “normali”. Che rende la creazione una bestia omicida e suicida. Un atto, questo, liberatorio verso un mondo che non l’ha voluto. Un gesto contro il suo stesso creatore, morto già prima.
“Ti ho forse chiesto io, Creatore, di farmi uomo dall’argilla? Ti ho forse chiesto io di trarmi fuori dall’oscurità?”. Queste le parole dell’Adamo del “Paradiso Perduto” di John Milton che ispirarono Mary Shelley nella creazione del mito gotico per eccellenza.
La sua vita fu segnata dalla morte del marito in barca sulle coste tirreniche italiane. Leggenda vuole che il cuore del marito, sottratto dalle fiamme del rogo funebre, fu consegnato a lei durante la cerimonia.
La sua attività da scrittrice continuò ma ogni sua opera fu, e continua a rimanere, all’ombra del romanzo scritto nel 1816. Scrisse una biografia, un romanzo storico (“Valperga”) e opere teatrali ( “Proserpina” e “Mida”).
Il suo ultimo scritto fu un romanzo di viaggio, “A zonzo per la Germania e per l’Italia”, pubblicato nel 1844 sotto forma epistolare.
Mary Shelley nacque il 30 agosto del 1797. La sua figura per anni è stata eclissata da quella del marito, ottenendo però il giusto riconoscimento con il passare degli anni. Grazie anche alla traduzione di opere meno famose di Frankenstein. Ma ovviamente le trasposizioni cinematografiche di questo romanzo le hanno consentito di ottenere un posto di rilievo nel Pantheon letterario europeo e non.
Il dottore e la creatura sono stati protagonisti, comparse, parodizzati in più di 50 tra film, cortometraggi, spettacoli teatrali e musical. A partire dal 1910 con la pellicola di J. Searle Dawley, per arrivare ai più recenti adattamenti e rivisitazioni della storia. Come la parodia di Mel Brooks “Frankenstein Junior” nel 1974.
Un romanzo gotico che continua ad essere una pietra miliare grazie alla capacità di riportare su carta il dolore, la disperazione che ha accompagnato la sua vita. Con la sua penna riuscì nel suo intento di dare“una scintilla di vita alla cosa inanimata che giace ai miei piedi”.