Mario Monterosso: dalla Sicilia a Memphis, in “missione per conto del Rock’n’Roll”
Il 3 febbraio del 1959 è anche conosciuto come “the day that music died“, il “giorno in cui la musica morì”. Buddy Holly, Ritchie Valens e J.P. “The Big Bopper” Richardson, i grandi del Rock’n’Roll, precipitarono con l’aereo che li avrebbe dovuti portare a Fargo, nel North Dakota, ennesima tappa del tour in programma. Non arrivarono mai a destinazione. Il mezzo precipitò nei campi innevati dell’Iowa, pochi minuti dopo il decollo. La loro vita e la loro carriera si interruppero drammaticamente, lasciando un vuoto immenso.
Il 3 febbraio di quest’anno ho intervistato Mario Monterosso, chitarrista siciliano, americano d’azione, tra i più sinceri e fedeli portabandiera del Rock’n’Blues tricolore.
La data, però, benché coincidente, è frutto di pura casualità. Non era stata pianificata di proposito in occasione della ricorrenza. Quando gli astri del R’N’R si allineano è tutto ancora più affascinante. Potremmo definirla intervista, perché tale è stata. Questo, almeno, nella visione sic et simpliciter della cosa. La realtà, però, dice che si è trattata di una chiacchierata tra due persone che si sono ritrovate per la prima volta a parlare in veste “ufficiale”, cioè da giornalista a musicista, ma che sembravano conoscersi da una vita. Parlare lo stesso linguaggio aiuta, merito anche e soprattutto della passione in comune. Quella per il R’n’R, appunto.
“Sono artisti totalmente diversi. Ritchie Valens ha rappresentato appieno l’apertura del Rock’n’Roll ad altre forme musicali. Il suo farsi contaminare da altri luoghi, altri sapori, altri colori e altre culture. “La Bamba” è simbolo musicale della cultura sudamericana eppure è diventato uno dei successi in ambito rock. Big Bopper aveva una presenza d’immagine diversa, ti riempiva col suo faccione simpatico e con la sua allegria, il suo parlare a mezzi termini di rapporti sessuali. Era il “vitellone” americano, ecco. Buddy Holly era l’avanguardia, era quello che stava più avanti di tutti in termini di sperimentazione. Oggi sarebbe un’artista pop a 360 gradi, e un po’ lo era anche al tempo. Ma non dimentichiamoci che in quel tour c’era anche Dion DiMucci, altro artista straordinario”, spiega Mario.
Sempre 3 febbraio. Stavolta del 1960. Dopo uno show frizzante e coinvolgente, Fred Buscaglione si mise alla guida della sua decappotabile Ford Thunderbid colore lillà, per andare a concludere la serata nel modo che meglio conosceva: divertendosi, prima di rientrare in hotel. All’albergo, però, non arrivò mai. Fatale lo schianto contro un camion. Inutile la corsa all’ospedale. Aveva 39 anni, una carriera di successo alle spalle e un futuro che non ebbe mai la possibilità di vivere.
“Buscaglione era un genio assoluto. Prese lo swing e cambiò l’approccio a esso, rendendolo intelligibile a tutti attraverso le storie raccontante nei brani. La parte letteraria dei brani di Buscaglione è geniale. Quelle storie colpiscono, sia che canti “Whiskey facile” o “Eri piccola così“, giusto per citare due tra i tanti pezzi scritti”.
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La musica, per tutta la durata dell’intervista, l’ha fatta da padrona. Come avrebbe potuto essere altrimenti quando dall’altro lato del microfono, o dello schermo come in questo caso, c’è Mario Monterosso, chitarrista siciliano, americano d’adozione, tra i più sinceri e fedeli portabandiera del Rock’n’Blues tricolore, cresciuto a pane e American Dream? Capirete bene che per chi, come il sottoscritto, valgono gli stessi principi e le stesse passioni, l’intervista abbia cambiato più volte pelle a seconda della curiosità e della voglia di scoprire il lato umano dell’artista. E’ tutta lì l’essenza del R’n’R, nell’identità. Concetto, questo, più volte espresso e ribadito dal nativo di Catania, Sicily.
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Una volta Stephen King affermò: “il piccolo, sporco segreto, del Rock’n’Roll, è che morì nel momento in cui il cd diventò popolare”. Con tale espressione intendeva scagliarsi contro quel mainstreaming esasperato che ha stroncato sul nascere numerosi astri nascenti del genere, rei di non essere sufficientemente omologati alle logiche del mercato e dell’industria discografica. Colpevoli, vostro onore, di non assomigliare a qualcuno nello specifico. La fabbrica del copia – incolla necessita di continue attenzioni e numerosi rifornimenti, altrimenti il brand non può essere alimentato. E poco importa se l’arte, invece, è per definizione quella che si nutre di cuore, anima e passione e che vede nella rottura di schemi e preconcetti la sua massima espressione.
“Non c’è niente di peggio del dover suonare per accontentare gli altri e non sé stessi“, spiega Monterosso, “per me l’identità di un artista è fondamentale. La musica è profondamente, visceralmente, legata a chi la realizza. Come, ad esempio, a un popolo, quello del blues, che ha vissuto determinate dinamiche sociali”. “Il parametro non è quello tecnico, perché ovunque ci sono musicisti in gamba. Magari percorri la Highway 61 e ti esce un vecchietto con una chitarrina tutta rotta, a tre corde, che appena inizia a suonare ti lascia a bocca aperta. Oppure vai a Memphis e trovi il sedicenne che ti fa un culo così nonostante abbia trent’anni in meno di te. La cultura è l’anima di questo genere musicale. E’ scalfita nella sofferenza, nel razzismo, nell’ emarginazione”.
“Gli americani sono molto take it easy, non gliene frega nulla di fare la stessa cosa, ognuno fa quello che vuole. Brian Setzer ha sempre fatto tutto a modo suo, restando figlio del suo tempo. Con gli Stray Cats nel ’79 suonava i riff di Scotty Moore o Cliff Gallup ma era anche figlio dell’epoca pre punk, allo stesso tempo suonava jazz e ha messo assieme tutte queste cose. Se hai la fiamma dell’arte dentro di te e vivi una situazione che l’alimenta, sei nelle migliori condizioni possibili per portarla avanti. Oggi è complesso, non c’è più neanche l’ombra di un qualcosa che possa alimentare una fiamma e quindi un’ideologia musicale, politica o stilistica che sia. L’ambiente stimolante aiuta, se manca è più complesso“.
“Quando racconto che mi sono licenziato dal posto fisso per seguire la strada del Rock’n’ Roll in tanti faticano a comprendere la scelta. Ho volutamente messo un freno a un percorso di vita che, nella mentalità italiana, aveva tappe già ordinate. Studi, trovi il lavoro, metti su famiglia e vai avanti. Invece il mio percorso si è ribaltato per trasformarsi in un’avventura straordinaria. Non si possono appagare gli altri e svilire noi stessi, su questo sono fermo nella mia decisione”. Americano d’adozione, dicevamo, poiché ormai trasferitosi a Memphis da qualche anno. Ma la saudade per la terra d’origine c’è sempre.
“Sono sette mesi che sono in Sicilia, però ora che vado via ho un buco enorme dentro. Questa terra ti seduce in silenzio. Ti ingloba, spesso perdi la voglia di fare le cose. Ma il siciliano, in qualità di isolano, è un sognatore. Verga e Sciascia hanno descritto la Sicilia in maniera perfetta, soprattutto nel credere “nella forza delle proprie idee“.
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Ma si può parlare di scena Rock’n’Roll in italia? “Si, ma vi sono dei limiti rappresentati dalla vera assenza di una cultura autoctona. Il genere non è nostro e quindi questa è la differenza più grande. Possiamo parlare del Summer Jamboree che tanto ha fatto e tanto sta facendo, ma prima c’era il festival di Forlì. Parlando della Sicilia, di Catania, abbiamo avuto un grande produttore, cioè Francesco Virlinzi e svariate band che avevano un’identità ben precisa. Virlinzi, che veniva da una famiglia di imprenditori, scelse di andare negli States per studiare e comprendere la musica prodotta. Portò in Italia i R.E.M, produsse Carmen Consoli, era amico di Bruce Springsteen. Magari trovavi Michael Stipe in giro per Catania a mangiare un cannolo, e solo grazie a lui. Ha fatto da apripista, è stato fondamentale”.
E poi il passo fondamentale, il trasferimento nella Land of Rock’n’Roll. Ma a 40 anni e non a 20 quando, probabilmente, tutto sarebbe stato diverso e magari più facile. Perché in età matura? “C’è una freschezza differente, rivestita da una patina giallina se non di grigiore nei capelli anche se, al contempo, si ha una maturità differente, maggiore, per ponderare anche determinate cose. Ho avuto paura, lo ammetto, perché è stato un salto importante”.
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“Ero una sorta di “dopolavorista” del Rock’n’Roll. Per come siamo abituati noi la tensione non era poca, ma la paura mischiata all’irresponsabilità e all’incoscienza fa sì che nella tua testa si accendino le antennine, quelle che ti pongono sull’attenti. Ma la paura è comunque pericolosa, perché può svilire e ammazzare un soggetto dalle cose che potrebbero cambiargli il destino. Dalla Catania degli anni ’80 a Memphis degli anni Duemila non è esattamente facile. Nella peggiore delle ipotesi era una scelta sbagliata che si riverberava sulle mie spalle. Ma di fronte a un bivio prendo sempre la strada nuova, perché se mi si è posta davanti tendo a pensare che ci sia sempre un motivo”.
“Ho resettato e riniziato da capo. Mi sono ritrovato nel college americano a studiare, perché volevo stare più di tre mesi per capire come funzionassero le cose. Non sto qua a dirti i trip mentali, immaginavo di essere in Happy Days. Ma è stata una cosa fighissima. Solo che avevo 40 anni. Ho girato il 70% degli Stati Uniti e visto cose davvero strane. Come il negozio Guitars & Guns che vende esattamente chitarre e fucili. Puoi comprare entrambe le cose nello stesso momento, magari esposte a pochi centimetri di distanza. Gli statunitensi sono diversi da noi, tra l’americano ignorante e l’italiano ignorante ci sono comunque tremila anni di storia che noi ci portiamo nel dna. Sono mondi imparagonabili. Gli Usa ne escono perdenti, assolutamente”.
Sei stupito da quello che è successo a Capitol Hill? “No, nient’affatto. L’America campa di contraddizioni forti come questa. Il razzismo esiste ancora, il soggetto di colore, per suo stesso approccio, tende ancora ad autoghettizzarsi. Di fronte a una porta fa un passo indietro per far passare te che sei bianco. Il razzismo c’è, così come l’ignoranza. In America tanti filtri che noi abbiamo non ci sono, come ad esempio qualsiasi forma di garantismo. Il solo fatto di comprarti un’arma, in maniera così facile e quindi pericolosa lo è, oppure la pena di morte in tanti Stati. Ma questi sono altri discorsi, da affrontare in altre sedi.
Pensi che l’aver inciso per la Sun Records ti abbia sdoganato in Italia come avvenuto negli Stati Uniti? Cosa è cambiato da quel momento? “Bella domanda. Allora, ho iniziato a suonare circa 35 anni fa. Ho fatto molte cose, anche di livello, ma da quando mi sono trasferito a Memphis di colpo sono diventato bravissimo. Eppure ero e sono sempre lo stesso. Solo che è come se fosse arrivato direttamente un altro Mario Monterosso. Purtroppo, o per fortuna, a seconda dei punti di vista, è stato un episodio spartiacque che ha portato risvolti positivi nella mia carriera. A volte mi sembra quasi eccessiva questa considerazione. Ma preferisco sempre un collega che mi dice “sento che suoni in maniera diversa”, ad un complimento di circostanza. La mia integrità e identità artistica è per me fondamentale”.
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Riguardo il tuo modo di suonare, come è cambiato una volta andato dall’altra parte dell’oceano? “A Memphis ho smesso di utilizzare pedaliere, pedali e pedalini vari. Chitarra dritta all’amplificatore, tranne l’eco quando faccio strettamente rockabilly. Ma è frutto di un percorso ben preciso e di una sicurezza acquisita negli anni che mi hanno portato a sviluppare anche le mie esigenze di suono. Io con il mio strumento. Punto. Nel mio passato avevo paura, ma adesso mi sono accorto che se vuoi dare un suono distorto alla chitarra non serve un pedale ma un approccio, una volontà. Prendi Dale Watson che non è un virtuoso ma con la chitarra fa cose incredibili. O le follie di Tav Falco. Sempre lì c’è la differenza, nella persona, non nello strumento. E’ ciò che vivi che poi trasmetti nello strumento. Ho smesso di pensare all’italiana secondo cui la paura di fare qualcosa prende il sopravvento sul farla. Memphis è una città semplice, è una città di cuore, mi rendo conto che di alcune cose non potevano che nascere lì, dal rock’n’roll al soul”. Serve aggiungere altro?
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