Manhattan, nevrosi e amori di Woody Allen sullo sfondo di una New York onirica
Era il 5 ottobre del 1979 e Woody Allen estraeva dal cilindro il suo coniglio più pregiato. Quello che, anche a distanza di quarantacinque anni, sembra non invecchiare mai e mantenere intatto il suo fascino. “Manhattan” è l’emblema della cinematografia di Allan Stewart Königsberg, pietra miliare del suo cinema d’autore in cui sogni e speranze, frustrazioni e nevrosi sono raccontate con ironia e agrodolce sarcasmo.
A fare da sfondo a una New York in bianco e nero e dalle sfumature infinite c’è la “Rapsodia in Blu” di George Gershwin, musicista idolatrato da Allen che, per rimetterci alle sue dichiarazioni dell’epoca, ne ha ispirato la pellicola. Isaac Davis, impersonato proprio dallo stesso Allen, e Mary Wilke, interpretata da Diane Keaton, prima, vera, musa del regista e sceneggiatore newyorkese, sono personaggi immortali, evergreen, che non hanno perso nulla del fascino della prima ora.
Leggi anche: Woody Allen, 86 anni del genio più discusso d’America
La velata malinconia con cui Ike finisce sul grande schermo è qualcosa di straordinariamente empatico. Impossibile restarne indifferenti, quasi a voler mettere a nudo le nostre fragilità. Così come le nevrosi della bellissima Mary e le idiosincrasie che legano entrambi i caratteri. Le loro insicurezze diventano le nostre.
I dialoghi che si succedono per tutta la durata della pellicola hanno segnato profondamente la filmografia di Allen, diventandone canone richiesto e paragone inevitabile. La visione della vita del regista è pressoché spiattellata sul grande schermo e messa a disposizione del giudizio dello spettatore. Una tragicomica realtà, con qualche picco di alti e molti bassi. Esattamente come New York, città capace di esaltare e distruggere. La città che non dorme mai, ambizione e meta irraggiungibile.
Leggi anche: Kate Winslet rivela: “Lavorare con Allen e Polanski… chi me l’ha fatto fare?”